Stefan Olsdal ci racconta i 20 anni dei Placebo | Rolling Stone Italia
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Stefan Olsdal ci racconta i 20 anni dei Placebo

Abbiamo incontrato l’altra storica metà della band inglese che nel 2016 ha festeggiato un traguardo importante. Come? Prendendosi cura l'uno dell'altro

Stefan Olsdal ci racconta i 20 anni dei Placebo

Giovedì 8 febbraio 1996. Sul biglietto del tour David Bowie al Palatrussardi di Milano, tra i gruppi di spalla del Duca Bianco che presentava l’album Outside, oltre agli emiliani Ustmamò c’era scritto: Morrissey. Invece Morrissey non c’è. Al suo posto una band, i Placebo, che forse non ha nemmeno finito di registrare il suo album di debutto, pubblicato nel giugno successivo. David Bowie non li ha mai conosciuti, non li ha mai visti dal vivo ma ha ascoltato qualche demo e li vuole sul palco.
Ha capito per primo che in quelle nevrosi sfogate attraverso melodie elettrificate c’è qualcosa in grado di emozionare il pubblico, che in Brian Molko e nelle sue strofe come “We were born to lose / Siamo nati per perdere” c’è qualcosa della trascendenza del glam rock trapiantato nel decennio di Kurt Cobain, dell’indie e del Britpop e che forse c’è spazio per una nuova versione delle provocazioni, delle melodie e dell’ambiguità sessuale della sua creatura più amata, Ziggy.

Nel 2016 i Placebo hanno festeggiato insieme al proprio pubblico il 20esimo anniversario di quell’esordio con una data sold out a Milano, la raccolta A Place for Us to Dream, EP, un nuovo singolo (Jesus Son) e un tour mondiale in cui hanno suonato canzoni che avevano giurato che non avrebbero mai più suonato. Stefan Olsdal sorride pensando a questo appuntamento con la storia, alla pazienza dei fan nel seguire gli alti e bassi di una band che ha sempre vissuto sul filo di un’emotività ad alta tensione, e a quando nel 1992 ha conosciuto Brian Molko alla fermata della metro di South Kensington a Londra. Tutti e due sono cresciuti a Bruxelles da figli di “expats” privilegiati, tra scuole inglesi e band studentesche, ma non si sono mai incontrati. Un mese dopo formano un duo lo-fi chiamato Ashtray Heart e da allora firmano insieme tutti i pezzi dei Placebo: «Il 2016 è stato una retrospettiva e una celebrazione di tutto quello che questi venti anni ci hanno dato. Mettere insieme la scaletta del tour è stata una delle cose più difficili che abbiamo mai fatto: abbiamo dovuto ripercorrere la nostra storia, scegliere i pezzi che ci hanno portato fino a qui e che rappresentano ancora qualcosa per noi. E anche organizzare una festa di compleanno per fare divertire tutti. Un bel casino».

Non è facile nemmeno infondere emozioni nel formato standard di una canzone e farla diventare una hit, come hanno fatto spesso i Placebo. Fare rock vuol dire occuparsi di sentimenti e comunicare con le persone. E’ questa la vostra eredità?
«Credo di sì, e anche il fatto di aver provato a dire che va bene provare qualsiasi tipo di emozione o di sentimento. Tutti noi proviamo migliaia di sensazioni in ogni momento della nostra vita, la differenza è capire cosa vuoi farne. Abbiamo sempre pensato che le emozioni ci rendano quello che siamo e che siano il modo migliore per comunicare con gli altri».

Nel corso del 20 Years World Tour avete dovuto rispettare la vostra storia personale, la vostra identità di band e le aspettative del pubblico. E’ stata dura?
«Rivivere il passato ci ha unito molto. Dovevamo farci forza attraverso la band. Per Brian non è facile cantare alcuni testi dei Placebo. Ci siamo presi cura l’uno dell’altro. Non credo che saremmo riusciti a farlo in un altro momento della nostra carriera. L’anniversario ci ha aiutato, e così nel 2016 siamo stati inequivocabilmente e sfacciatamente i Placebo».

C’è qualcosa che avreste preferito non ricordare?
«Abbiamo attraversato periodi oscuri. In passato non è stato nemmeno facile portare a termine i tour. Abbiamo vissuto momenti di dolore e confusione emotiva, ma siamo riusciti a non fermarci mai. Non si può cambiare il passato e non si può prevedere il futuro, bisogna solo imparare a vivere il presente, e il presente cambia in continuazione».

Soprattutto se vuoi diventare adulto e non rimanere per sempre un giovane arrabbiato.
«L’importante è raccogliere l’energia necessaria per vivere nel momento. Il che può fare paura perché ti rende molto vulnerabile, ma è la vita».

Le emozioni e la malinconia possono essere un posto molto comodo dove stare, ma c’è da stare attenti.
«Penso che gli strumenti musicali andrebbero insegnati a scuola ai bambini come se fossero una lingua straniera, perché sono una forma di espressione fondamentale. Incorporare nella musica elementi della tua vita rende le cose più difficili, ma per questo mi piace pensare a noi come ad una band che ha promosso la tolleranza e l’accettazione delle diversità. I Placebo sono onestà emotiva che a volte può essere dolorosa».

Cosa ti ha spinto verso la musica?
«A dodici anni ho cominciato a suonare la batteria e ho avuto la sensazione di venire attirato dentro la musica. Potevo fare qualcosa meglio degli altri e trovare una soddisfazione personale. Ho studiato tutti gli strumenti, ed è diventato il mio modo di esprimermi. L’ho seguito ciecamente, perché la gioventù ti stimola ad esplorare tutto. Il percorso che la vita ti mette davanti è una strana combinazione. Poi ho incontrato Brian, e lo abbiamo vissuto insieme».

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Pensi di aver vissuto una stagione irripetibile?
«Gli anni ’90 sono stati un momento importante, in cui la musica veniva considerata un elemento fondamentale per la società. In Inghilterra c’era grande fermento e un’industria che funzionava. D’altra parte oggi ci sono molte più possibilità, la rivoluzione tecnologica in corso offre in continuazione nuovi strumenti per fare qualcosa di straordinario. È un’epoca strana ma anche molto interessante. L’unica cosa certa è che la musica non sparirà mai. Le persone vorranno sempre creare. Oggi nel nostro pubblico ci sono ragazzi che non erano neanche nati quando è uscito il nostro primo album, c’è una generazione che non sa chi sia David Bowie. Ma cresceranno lo stesso e faranno musica».