So long, Leonard Cohen: Death of a Ladies’ Man | Rolling Stone Italia
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So long, Leonard Cohen: Death of a Ladies’ Man

Il suo cantautorato di spirito e di carne era perfetto, ma Leonard Cohen si è reinventato fino alla fine

Leonard Cohen, foto via FB ufficiale

Leonard Cohen, foto via FB ufficiale

Se c’è un momento che riassume il genio depravato di Leonard Cohen, è la sua performance di Sing Another Song, Boys al famigerato festival dell’Isola di Wight nel 1970. Il poeta vaga sul palco alle quattro del mattino, indossa una giacca spiegazzata color kaki, ha una chitarra acustica, e i suoi occhi neri e intensi penetrano la telecamera mentre la voce sommessa gracchia un’altra ballata di innamorati senza fortuna. “They’ll never, ever reach the moon”, declama. “At least not the one that we’re after”. Non si accorge che la voce barcolla e ha perso l’intonazione. ”It’s floating broken on the open sea– look out there, my friends!”. Persino le coriste hippie prendono atto del suo aspetto lunatico e lo guardano un po’ allarmate. “And it carries no survivors”. Cohen in tutta la sua concentrazione monastica seduce mezzo milioni di sconosciuti in un miserabile festival all’aperto della durata di cinque giorni. Tutti tremano, irrequieti e intontiti dalle droghe, eppure lui sa come adescarli nel suo immaginario sognante. Non ci sarebbe riuscito nessun altro.

Grazie per la vita che hai vissuto, Leonard Cohen. Quest’uomo era la crepa in ogni cosa, ma anche la luce che ogni cosa riempie. Nessuno ha scritto ballate così scarne e intense per meditare al buio in solitudine, fissando una finestra o un muro– ballate come Joan of Arc, Chelsea Hotel, Tower of Song, Famous Blue Raincot, Closing Time. Era l’ebreo canadese più sciupafemmine del circuito musicale ancor prima che nascesse Drake, sempre alla ricerca di denaro e donne. Come Bowie e Prince, si era ritirato nel suo reame spirituale per dedicarsi alla sua forma di gnosi sessuale e, come loro, se n’è andato al culmine della sua espressività musicale.

Nessun cantautore è invecchiato con altrettanta astuzia o stile.

Nato nel 1934, Cohen ha inciso più dischi dal 2010 in poi di quanti ne abbia pubblicati tra gli anni ottanta o novanta. Ha fatto uscire il suo ultimo album You Want it Darker poche settimane fa: quando mai un ottantaduenne è stato capace di rilasciare una dichiarazione musicale così radicale e definitiva? Come ha detto in tono neutro nelle sue canzoni, Cohen era pronto ad andarsene: era il mondo che non era pronto a lasciar andare lui.

Soprattutto in una settimana come questa: Cohen ha sempre saputo come fare un’uscita di scena. So di non essere l’unico tra i suoi fan ad essersi affidato alla sua musica per affrontare l’inferno degli ultimi giorni. Solo poche ore prima la notizia della sua morte, ero completamente immerso in Songs of Love and Hate, il suo capolavoro glorioso e ostile del 1971 (il momento più allegro è quando Giovanna d’Arco viene avvolta dalle fiamme). Eppure quella saggezza brutale e quel groove acustico senza fronzoli sono di grande sostegno in momenti difficili come questi. Ogni canzone sembra dire, “Pensi che sia questo il peggio che possa capitare? Aspetta ancora. Cari saluti, Leonard Cohen”. Come Lemmy, al quale somigliava per tanti aspetti, Cohen adorava il ruolo da vecchio guerriero saggio. Invecchiare non lo imbarazzava e non ne era impressionato.

Cohen ha sempre dettato i propri tempi, e parte della sua mistica ineffabile sta in questo: aveva ben più di trent’anni quando fece uscire il suo primo disco, il classico Songs of Leonard Cohen del 1967. Era rotolato via da Montreal con il suo baritono sciatto, la chitarra folk influenzata dal flamenco e una vasta collezione di muse beatnik dagli appetiti insaziabili. Nato qualche mese prima di Elvis, aveva pubblicato la sua prima raccolta di poesie (Let Us Now Compare Mythologies) lo stesso anno di Heartbreak Hotel, ma ci sarebbe voluto un altro decennio di sperimentazioni letterarie prima che qualcuno lo sentisse cantare di nuovo. Si era fatto la fama di uno scavezzacollo insensibile, tormentato dall’amore, ma anche inesauribilmente sconcertato dal suo spettacolo (Un distico a scelta da quella gemma recente che è New Skin for the Old Ceremony: “You were Marlon Brando, I was Steve McQueen/ You wore K-Y Jelly, I was Vaseline). Cohen si distingueva dalla marmaglia folk degli anni Settanta per il suo senso dell’umorismo auto-deprecatorio. Come ha scritto sulle note alla raccolta The Best of Leonard Cohen per spiegare la foto di copertina in cui è tutto in ghingheri, “Non sono mai così bello, o così brutto: dipende dai vostri gusti”.

Ma la svolta davvero strana è arrivata negli anni Ottanta, quando stava per compiere cinquan’anni ed era diventato più famoso di quanto non fosse mai stato, quasi per caso. Nel mio caso, il primo indizio che Cohen meritasse molto tempo della mia adolescenza mesta e lamentosa era stata la cover di Avalanche di Nick Cave, la conferma che il tizio che aveva scritto perle sentimentali come Suzanne in realtà era un gangster punk-goth fatto e finito. L’hook del loro primo singolo di successo Hand In Glove, gli Smiths lo hanno strappato da lui.

Cohen ha reclamato il ruolo di più saggio tra saggi in I’m your Man, intriso di synth Euro-pop, brontolando Everybody Knows per avvisarci di non nutrire troppe speranze verso le elezioni del 1988 (o quelle del 2000) (o quelle del 2016). Come ha dimostrato lui, “Everybody knows that the dice are loaded/ Everybody rolls with their fingers crossed/ Everybody knows that the war is over/ Everybody knows that the good guys lost”.

I’m Your Man e il suo sequel ancora più cattivo del 1992, The Future, toccarono un nervo scoperto nel pubblico più giovane. (Infedels di Bob Dylan, una raccolta di ballate suadenti del 1983 stranamente dimenticata, è stato un apripista per gli ultimi tre decenni della carriera di Cohen). Halleluja, un inno fatto fuori da un disco del 1985 che la sua casa discografica non si preoccupò neanche di pubblicare, è rimasta dimenticatoio per anni finché Jeff Buckley non l’ha riesumata trasformandola in uno dei classici pop più amati al mondo. Kurt Cobain sospirava, invocando un “Leonard Cohen afterworld” all’interno di In Utero, mentre nei mesi successivi alla sua morte, Courtney Love di nuovo sul palco con le Hole proponeva spesso Sisters of Mercy.

Leonard Cohen è nato nel 1934 a Montreal, in Canada

Leonard Cohen è nato nel 1934 a Montreal, in Canada



Negli anni novanta, invece di sfruttare la sua nuova fama, Leonard Cohen sparì sulle montagne, trascorrendo gran parte del decennio in un monastero Zen
buddhista. Poi è tornato nel 2001 con un disco dal titolo di una meravigliosa nonchalance, Ten New Songs, pieno di elegie addolorate come In My Secret Life e Alexandra Leaving. Quando è tornato a fare concerti nei tardi anni duemila, non ha nascosto i motivi del rientro: il suo vecchio manager gli aveva rubato tutti i risparmi lasciandolo al verde. Se siete stati abbastanza fortunati da assistere a uno di quei concerti, saprete che si è trattato di un evento che non potete dimenticare: Cohen balzava letteralmente su e giù dal palco e andava avanti per tre ore, alimentato soltanto dalla musica. Durante il suo ultimo concerto a Auckland in Nuova Zelanda nel 2013, l’ultima canzone che ha cantato è stata Save the Last Dance for Me dei Drifters.

Come David Bowie, ha scritto la colonna sonora della sua fine, facendo uscire un addio a sorpresa come You Want It Darker. E come David Bowie in Blackstar, Cohen non ha cercato di nascondere le asperità della voce, affrontando la mortalità senza autocommiserarsi, pur riconoscendo che la fine era nei paraggi. La scorsa estate ha scritto una lettera pubblica alla sua vecchia musa Marianne Ihlen, ammalata e in procinto di morire: “Sappi che ti sono così vicino che se stendi la mano, puoi toccare la mia… Addio amica mia. Con amore infinito, ci si vede alla fine della strada”.

L’ultima volta che l’ho visto è stato durante era un pomeriggio afoso del 2014, durante una presentazione del disco Popular Problems per la stampa al Joe’s Pub di New York. A sorpresa, alla fine era arrivato Cohen in persona, scivolando dentro la stanza, elegantissimo con il suo borsalino. Mancava una settimana al suo ottantesimo compleanno, e Cohen aveva annunciato il suo ultimo piano: tornare a fumare, dopo aver smesso verso i cinquant’anni. “Non ho fatto che sognare quella prima sigaretta per trent’anni” aveva detto. “È stato uno dei miei pensieri ricorrenti. Qualcuno sa dove si possono comprare sigarette turche in questa città?”.

Tutti i presenti nella stanza volevano prendersi a calci perché non sapevano la risposta. Ma alla fine Leonard Cohen era sempre pieno di interrogativi e misteri che solo lui poteva capire. Continueremo a sentire Leonard Cohen anche quando sarà passato molto tempo dal suo addio, mentre ci parla da una finestra della sua Tower of Song. Stiamo per addentrarci in un amaro inverno, e di quella voce abbiamo ancora bisogno.

Leonard Cohen - Hallelujah (Live In London)

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