Rolling Stone Italia

Rock Is Not Dead (forse)

Se non vivete chiusi in un eremo, nel radicale rifiuto della società contemporanea, è assai probabile che negli ultimi mesi abbiate sentito parlare almeno una volta dei Maneskin e del loro frontman, Damiano David.

Vincitori annunciatissimi dell’undicesima edizione di X-Factor, i Måneskin sono arrivati secondi, medaglia d’argento dopo Lorenzo Licitra (se non ricordate che faccia abbia, tranquilli, è normale, evidentemente l’avete già smaltito nel dimenticatoio collettivo, insieme ai vincitori delle edizioni precedenti). In compenso, però, i Måneskin hanno vinto un disco di platino per il loro singolo, Chosen (che nel frattempo è diventato colonna sonora dell’ultimo spot Volvo); il loro videoclip conta cinque milioni e mezzo di visualizzazioni su YouTube (circa 4 milioni in più rispetto al video di Licitra); il tour di 21 date in giro per la penisola è andato sold-out come manco quello dei Radiohead; e, dulcis in fundo, hanno suonato da Fazio, il che naturalmente li ha consacrati nell’Olimpo delle “cose giovani” di cui è bene che anche i vecchi siano a conoscenza.

Naturalmente, come tutto ciò che piace a molti, i Måneskin vantano un nugolo di detrattori accaniti, probabilmente ignari del fatto che se i Rolling Stones debuttassero oggi nell’industria culturale, quella dell’infinita pluralità digitale, dovrebbero passare pure loro da un talent, oppure da un canale YouTube, oppure da un profilo Instagram molto attivo. Ad ogni modo, le argomentazioni principali degli anti-Måneskin sono: “Suonano come zappe” (e non si tratta di un lusinghiero riferimento a Frank); “Il singolo fa schifo” (niente a che vedere, in effetti, con tutti i luoghi e tutti i laghi con cui ci aveva deliziati Valerio Scanu); “Sono solo quattro pischelli presuntuosi e borgatari” (perché sì, i Måneskin sono tutti minorenni, tranne il succitato e succinto Damiano).

Pur tuttavia, per dirla in maniera sofisticata, i Måneskin spaccano e a voler fare un’analisi grossolana dei motivi di questo successo, come se fossimo al bar della periferia della provincia, potremmo individuare due ragioni principali: uno, essi hanno una vocazione esplicitamente “rock” e tanto basta a renderli un fatto straordinario nel panorama dei talent show italiani (e se ci dice bene non dovremo neppure ascoltarli cantare a Sanremo un’orrida canzone d’amore in rima baciata); due, sono fighi, molto fighi, tutti e quattro, specialmente il leader Damiano, che è più bono del pane di Altamura appena sfornato.

Che Damiano si presenti sul palco in canotta traforata e hot pants, oppure in pigiama; che ci faccia un corso avanzato di pole dance in tacchi a spillo e stivali di latex; che passeggi scalzo durante l’esibizione con le caviglie ammanettate risvegliando impulsi torbidi nell’audience più smaliziata; che si dipinga le unghie di nero, che sfoggi più gioielli di Marta Marzotto o che si faccia degli smokey eyes che manco nei video-tutorial delle beauty blogger più blasonate, non fa differenza. Damiano David piace a tutti, in tutte le salse, e lo sa molto bene. Ammicca, seduce e conquista il pubblico, indifferentemente maschile e femminile, rendendosi protagonista di un gioco lucido e puntuale, fatto di narcisismi legittimi e citazioni conturbanti. Smignotteggia sul palco con la spavalderia e la grazia della gioventù (lo faceva pure Mick Jagger, ai suoi tempi, per citare uno scarso), ponendo il suo sex-appeal a uso e consumo della performance. Dimostra consapevolezza dei propri mezzi, incarna un ruolo familiare (quello del frontman) ma lo rielabora in chiava contemporanea, abbinando panta-fuseaux di pelle, stivaletti da Walker Texas Ranger, camicie floreali, cinture pitonate, pellicce leopardate, baffetti discrezionali, pettorali e gambe depilate, restituendoci una specie di metro-sessualità efebica, coatta e irresistibile, che fa da packaging a una voce e un’attitudine apertamente rock.

Da molti definito un’icona della fluidità sessuale dei g-g-giovani dell’oggi, Damiano passa per un esponente della pansessualità millennial, mentre colleziona apprezzamenti più o meno sfacciati sotto ogni foto pubblicata online (non è infrequente leggere, tra i commenti, promesse multiple di mutande stracciate e reggiseni lanciati, tanto per capire il grado di sobillazione ormonale che riesce a causare).

Ma la cosa più interessante, in lui e nella sua band (sarebbe ingiusto non segnalare che anche Victoria, Thomas ed Ethan sono molto stilosi), è che ci ricordano cosa sia il rock orgoglioso, che non conosce dubbi né vergogna, in un’epoca in cui al rock ci siamo disabituati, perlomeno nei contesti mainstream (ho detto davvero “mainstream”? Sì, l’ho detto). Anni di talent tv ci hanno sovraesposti a monumenti della mediocrità, eccellenze presunte, talenti increduli, profili incerti, idee singhiozzanti e identità balbuzienti, in una parata interminabile di signori nessuno, bisognosi di incoraggiamenti e rassicurazioni, beniamini dell’oggi e del mai più, popolarità istantanee pronte a disfarsi alla fine della stagione, casi umani di varia estrazione alla ricerca del proprio trimestre di riscatto sociale.

Poi sono arrivati i Måneskin, capitanati da Damiano, che hanno saputo ricordarci, seppur dentro un circo televisivo, la potenza delle immagini esplicite, la forza delle provocazioni, la bellezza degli eccessi, la libertà dell’arroganza. In altri termini: il compiacimento etico ed estetico del rock. Ci hanno guardati in faccia e ci hanno detto: “Baciateci il culo. Se non vi piacciamo, vuol dire che non capite un cazzo”.

E, forse, hanno ragione.

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