Quella volta che hanno cercato di uccidere la disco | Rolling Stone Italia
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Quella volta che hanno cercato di uccidere la disco

Oggi è l'anniversario della Disco Demolition Night, un evento antesignano del populismo. Un patetico tentativo di liberarsi della musica simbolo di gay e neri. Eppure oggi la disco è ancora qui, ma purtroppo anche gli ignoranti.

Quella volta che hanno cercato di uccidere la disco

A volte bisognerebbe dare un occhio alla storia. A quegli eventi che immancabilmente ci ricordano la stupidità dell’essere umano. Oggi è l’anniversario di un’altra demente rappresentazione della storia bianca degli Stati Uniti chiamata Disco Demolition Night.

La disco nasce nella seconda parte degli anni Sessanta tra New York City e Philadelphia. Strutturata su un ritmo in cassa in quattro (da cui si ergerà tutta la dance, sia quella pop che quella per i dancefllor), condita da ritmi, e poliritmi, latini come Rhumba, samba e cha-cha-cha, è animata dall’attitudine funk di basso e chitarre e da un utilizzo innovativo della voce che porta gli uomini all’uso di un falsetto antimacho e le donne ad un registro basso, caldo, sexy (i 17 minuti della versione originale di Love To Love You Baby di Donna Summer e Giorgio Moroder sono orgasmici). Un grande sogno positivo. Il pubblico disco è una rappresentazione antropomorfa di quel sound, un miscuglio di minoranze afro-americane, italo-americane (ah già, che anche noi siamo stati migranti ed emarginati, ce lo siamo scordati!), latino-americane e comunità gay e psichedeliche. È una musica che libera il corpo e la sessualità nel ballo. È una ribellione al rock bianco. Eccesso dionisiaco, libertà, travestimento. Riprendersi la notte, in poche parole. Negli anni ’70 esplode definitivamente, grazie ad artisti come Gloria Gaynor, Chic, Donna Summer, Bee Gees, Kool & The Gang, Barry White, Micheal Jacksom (e i Jackson5 prima), Barry White e a programmi tv come Love Train e film come La febbre del sabato sera. È la miccia che apre la strada all’house, all’hip-hop, all’electro, pedina fondamentale nella storia della musica che oggi spingiamo nelle nostre cuffie.

Il 12 luglio 1979, un gruppo di deejay rock capitanati da Steve Dahl, dopo una lunga campagna radiofonica contro la disco, decide di dar vita alla Disco Demolition Night, quello che a tutti gli effetti deve essere (e diverrà) il funerale della disco music. Siamo a Chicago, al Comiskey Park, stadio della squadra di baseball dei White Socks per i quali il 1979 è una stagione di sconfitte e poco pubblico. Per questo il direttore marketing della squadra dell’Illinois contatta Dahl per consentirgli di creare questa fantomatica Disco Demolition Night, un raduno di haters della disco pronti a distruggere musica e cultura (chi altro demoliva la cultura di recente? Ah già, l’ISIS!) Nelle settimane precedenti, Dahl inizia a martellare la sua audience con una serie di iniziative di terribile gusto: distrugge in diretta il 45 giri di The Hustle di Van McCoy, nel giorno della sua morte per arresto cardiaco, occupa con forza una discoteca per teenagers e invita il suo pubblico a presentarsi al Comiskey Park con in mano il 45 giri disco a cui voler dar fuoco, al prezzo di soli 0.98cent di dollaro. Se quell’anno gli spettatori delle gare pomeridiane si attestavano attorno ai 12.000, quel giorno se ne presentano più di 90mila, tra chi riuscì ad entrare, chi scavalcò e chi rimase fuori dallo stadio trepidante, a dimostrazione di come il numero degli idioti sia sempre maggiore di quanto pensiamo. Dahl si presenta sul campo in jeep e tenuta militare, aizza la folla al microfono al grido ‘Disco sucks!’ e annuncia l’imminente messa a fuoco dei dischi portati da quell’orgia di ignoranti affamati di fiamme. In rete potete trovare dei footage: siamo a metà tra uno sketch di John Belushi al SNL e un ritrovo neo-nazi. Manca solo una ruspa.

È facile immaginare il dopo. I dischi vengono fatti esplodere. Dahl abbandona il campo. La folla si lancia barbara in un’invasione di campo. E demolisce davvero tutto. Vengono accesi piccoli fuochi, strappati pezzi di prato, distrutte sedute e panchine. La seconda partita di giornata non ci sarà, neppur dopo lo sgombero della polizia. I feriti saranno trenta. Da quel momento, in appena due mesi, le hits disco spariscono dalla Top10 (a luglio sono sei, a settembre nessuna) e il genere viene ostracizzato dai white media a favore dell’esplosione del bianchissimissimo country.

Seppur Dahl, con il senno di poi, cercherà di minimizzare il valore razziale e sessiata della questione, la storia gli dà ampiamente torto. I 90mila spettatori di quel pomeriggio sono una overdose di white America, una risposta della white supremacy contro un genere fatto da immigrati e minoranze che volevano semplicemente esprimersi fuori dai canoni dominanti statunitensi.

Ancora oggi, anzi, soprattutto oggi, fatichiamo a capire che l’ignoranza è l’unico sinonimo di sessismo e razzismo. Il Disco Demolition Day fu un evento antesignano del populismo. Il permettere all’arroganza di manifestarsi e di esprimere la propria natura con la forza.

La disco music era un genere che non rientrava nei canoni bianchi occidentali e che esprimeva nuove libertà in nuovi spazi; per questo era facilmente disprezzabile da chi la guardava con occhio disgustato. Per fortuna, a 39 anni da quell’evento, la disco ha continuato un suo percorso sotterraneo diventando, tra revival e citazioni, la base del pop contemporaneo. Questo perché la cultura e la musica sono sempre più forti e più permanenti dei fascismi.

Come disse Nile Rodgers degli Chic dopo il successo universale della sua Get Lucky, con i Daft Punk e Pharrell, arrendetevi: abbiamo vinto noi.