Queens of the Stone Age: balla o sparisci | Rolling Stone Italia
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Queens of the Stone Age: balla o sparisci

Una musica “sott'acqua”. Così Josh Homme parla del nuovo album prodotto da Mark Ronson. Unica regola: muoversi

Queens of the Stone Age: balla o sparisci

Foto Matt Helders

Villains, il nuovo album dei Queens of the Stone Age, è un po’ più rilassato e allegro dell’ultimo, …Like Clockwork, uscito nel 2013: «Sinceramente, il motivo è che mi piace ballare», dice Josh Homme con un’aria tremendamente seria.

L’altra ragione è che i Queens of the Stone Age hanno lavorato con Mark Ronson, produttore di Amy Winehouse, Bruno Mars e Adele: «Forse il pubblico non capirà cosa c’entrano i Queens e Ronson», dice Josh Homme, «ma se ascolti attentamente Uptown Funk senti un suono secco e serrato, ed è esattamente quello che cercavo nel nuovo album. Volevo quel tipo di chiarezza, volevo che suonasse come Songs for the Deaf, ascoltata sott’acqua attraverso una maschera. E poi io e Mark abbiamo una cosa in comune: tutti e due siamo ossessionati dal ritmo della batteria». Il chitarrista Troy Van Leeuwen aggiunge: «È stato interessante lavorare con Ronson: anche se è un musicista decisamente lontano da noi, abbiamo scoperto di avere gli stessi gusti musicali e lo stesso senso dell’umorismo. È una vera enciclopedia della musica: prova a dirgli il titolo di un album, e lui ti dirà chi ha suonato la tastiera in ogni canzone. Ha passato un sacco di tempo a leggere i credits di ogni disco».

Oltre al cambio nella produzione, secondo Homme, in Villains, uscito il 25 agosto, la band ha trovato un nuovo approccio musicale. Le chitarre sono sempre tirate come in passato, ma in alcuni pezzi, come Feet Don’t Fail Me e Un-Reborn Again, gioca con ritmi disco e giri di synth. In generale c’è un’atmosfera più spensierata rispetto a …Like Clockwork, ma è anche un disco personale, uno di quei rari album hard rock allo stesso tempo potenti e delicati: «Man mano che vai avanti nella carriera, gli album diventano sempre più un’espressione diretta di quello che sei», dice Josh Homme. «Servono a segnare punti nella tua cronologia personale, a marcare il fatto che sei vivo».

Foto Matt Helders

Josh Homme ha avuto molte cose di cui scrivere dal 2013 a oggi. Ha prodotto Post Pop Depression, che è diventato il classico moderno di uno dei suoi idoli assoluti, Iggy Pop, ed è anche andato in tour con lui. «Sono stati i tre mesi più divertenti della mia carriera», dice Van Leeuwen, «Iggy è incredibilmente generoso, ha dato tutto ogni sera. Non abbiamo fatto una data debole in tutto il tour. Però, quando il tour è finito, il titolo del disco è diventato realtà: per mesi non abbiamo avuto voglia di fare niente».

Prima di questa collaborazione con Iggy Pop, Josh Homme ha visto vacillare la sua fede nel rock’n’roll, e in qualsiasi altra cosa, dopo gli attacchi terroristici di Parigi del 2015, in cui è rimasta coinvolta la sua seconda band, gli Eagles of Death Metal. Quella sera al Bataclan lui non c’era, ma è rimasto scioccato ugualmente: «Ha cambiato il mio modo di fare qualsiasi cosa, ha rinforzato la mia convinzione che non bisogna rimandare niente, altrimenti si avranno dei rimpianti. Muoviti, fai le cose. Se hai litigato con qualcuno, risolvila subito. Se vuoi fare qualcosa, fallo».

Questo senso di urgenza si è fatto largo nei testi e anche nel modo rapido in cui la band ha lavorato agli United Studios di Los Angeles e ai Pink Duck Studios di Burbank, registrando l’album in tre mesi. Ha influenzato anche la decisione di fare un album meno minaccioso e complesso di …Like Clockworks. «Nel nostro ultimo disco ci sono molte canzoni lente e profonde. Ma noi siamo una band di rock’n’roll, quindi abbiamo cercato un equilibrio, inserendo pezzi più veloci e ritmati. È il risultato di una presa di coscienza. Ascolti un brano come The Vampyre of Time and Memory e pensi: “Ma perché sei così depresso?”», ride Van Leeuwen. «“Fai il lavoro più bello del mondo, sei circondato da persone che ti amano, perché non la pianti?”». Van Leeuwen spiega che le canzoni di Villains erano in giro da anni. Head Like a Haunted House esiste (senza testo) dai tempi dell’album Era Vulgaris del 2007, mentre Villains of Circumstance è stata presentata per la prima volta da Josh Homme in versione acustica al Meltdown Festival di Londra nel 2014.

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Sul disco, invece, parte con una chitarra scintillante, un giro lento di basso e la voce di Josh Homme che canta: “La vita continua / È questo che mi fa così paura”. «L’ho scritta in un hotel in Austria: il testo è venuto fuori tutto insieme, il che è una rarità, un vero lusso. Due giorni dopo l’ho suonata in versione acustica al Meltdown, ed è stato tutto molto naturale». Ora è un pezzo quasi new wave, pieno di cambi di tempo. «Quando l’abbiamo registrata abbiamo pensato: “Come possiamo conservare l’atmosfera della versione originale?”. Volevamo una cosa simile alla cover di Blue Moon fatta da Elvis Presley, un pezzo che sembra quasi vuoto a livello sonoro. Quando l’ha sentita, uno dei miei discografici mi ha detto: “Credo che la gente non sappia quanto sei bravo a suonare in acustico e fare pezzi con un ritmo più lento”. Ho pensato: “Davvero? Che strano”. Forse ha ragione, la gente non ci associa immediatamente alla grande varietà di stili musicali che ci sono in questo disco».

I testi di Villains, sia nei pezzi più ballabili che in quelli più introspettivi, parlano di mortalità, devozione, amore e distanza tra le persone: «Il tema ricorrente è l’idea del presente, dell’ora e adesso. Il presente è tutto quello che abbiamo, e non c’è ragione per aspettare. Se aspetti a fare qualcosa, probabilmente stai sbagliando». Per Josh Homme Villains è un disco personale, anche se ha nascosto i temi più intimi dietro alla sua tipica ironia e al suo senso dell’umorismo: «Non ho bisogno di andare dritto al punto, o di fare un corso intensivo, per quanto riguarda gli argomenti più pesanti di questo disco. Ho una certa esperienza nel gestire le situazioni difficili. Il punto è capire che le cose stanno così, che ti piaccia o no. Accettare questo fa parte della vita, bisogna imparare a fare i conti con il proprio presente».

Anche se è riluttante ad affrontare l’argomento (anzi dice chiaramente «Non ne voglio parlare»), Josh Homme è ancora scosso da quello che è successo agli Eagles of Death Metal. Un passato con cui ha dovuto di nuovo fare i conti a maggio, con l’attacco al concerto di Ariana Grande a Manchester. «È terrificante far parte di un club del genere, speri solo che non succeda più e che non ci siano altri nomi da aggiungere a questa lista. Non lo auguro a nessuno. Il male nel mondo c’è sempre stato, e così i cattivi. Quando vivi simili esperienze, l’unica cosa è darsi un buono motivo per guardare avanti. Vuoi una fottuta ragione per continuare? Eccola». Dice di essere pronto a tornare in tour con i Queens of the Stone Age. «Mi rifiuto di cambiare minimamente il modo in cui mi sento quando sono in tour. Questo è quello che mi piace fare e continuerò a farlo. È un desiderio. Puoi chiamarlo voglia di libertà, essere americano, essere punk-rock, oppure essere un fottuto idiota. Non me ne frega niente: continueremo a fare quello che facciamo, a ogni costo».

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Una delle canzoni più personali di Villains, Fortress, riflette questo sentimento: “Non voglio deluderti, quindi ti dirò l’orribile verità / Ognuno di noi affronta l’oscurità da solo”, canta Josh, in mezzo a un collage di chitarre e sintetizzatori. “L’ho fatto io e lo farai anche tu”, dice, prima di promettere che “Se la tua fortezza crollerà / Sarai sempre al sicuro nella mia”. Non vuole dire a cosa si riferisca nello specifico, ma è felice di mostrare un lato più intimo di sé in questo suo disco: «Quando sei giovane sei spinto a nasconderti dietro a una maschera, o magari ti convinci da solo che è meglio farlo, ma con il passare degli anni quella maschera si consuma. Ho perso qualsiasi ragione per nascondermi, e quando si tratta di scrivere musica non ho più alcun interesse a trattenermi. Più sono sincero e vulnerabile, più mi sento meglio. Di cos’altro dovrei scrivere?». Poi continua: «I Queens sono sempre stati un luogo libero dalla politica e da tutti quei discorsi senza capo nè coda. Siamo come una sala giochi o una gelateria, in cui non si parla di politica. C’è bisogno di una via di fuga: preferisco parlare di quello che conta davvero per me e per le persone che mi ascoltano, che può essere la propria famiglia, piuttosto che la propria grande passione».

Per rimanere allo spirito “da gelateria”, Josh Homme ha scritto strofe autobiografiche molto divertenti nel primo pezzo dell’album, Feet Don’t Fail Me: “Sono nato nel deserto, baby, 17 e 73”, canta su un ritmo dance in quattro quarti, “Quando la puntina ha cominciato a far girare il groove sul disco / Ho iniziato a muovermi e a inseguire quello che mi stava chiamando”.
Homme è nato davvero nel 1973, ma, a parte questo, il testo è un racconto spensierato della sua vita, con riferimenti al fatto che gli piace davvero ballare: «Potevo scrivere qualcosa di presuntuoso, ma poi avrei pensato: “Fanculo, non è vero”, quindi ho cominciato a buttare giù strofe tipo: “La vita è dura, ecco perché nessuno sopravvive, e oggi sono molto più vecchio di quanto ho sempre pensato che sarei diventato”. Meglio così, piuttosto che qualche stronzata senza senso». Quella è la canzone dell’album preferita da Van Leeuwen: «Mi ricorda il suono dei tamburi di guerra», dice, paragonandola a un pezzo della band hard rock anni ’70 Foghat. «Come se i nativi americani la sentissero prima di fare lo scalpo a tutti quanti i figli di puttana là fuori».

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La band si è divertita a sperimentare in studio e a cercare nuove strade. Ronson ha portato una vagonata di sintetizzatori, e li ha spinti a provare suoni diversi. Van Leeuwen cita come ispirazione la compositrice della colonna sonora di Arancia Meccanica, Wendy Carlos, e la kick drum di Dr. Dre in California Love, ma le influenze più evidenti sono il boogie dei T. Rex in Un-Reborn Again e l’atmosfera del Bowie berlinese.

«Ho appena fatto un disco con Iggy Pop e amo i T. Rex», dice Josh Homme. «Iggy è il miglior esempio di frontman che il rock’n’roll possa avere oggi. Magari puoi dire: “Mi piace di più la voce di questo cantante”, o “Preferisco le canzoni di quello”, ma non puoi trovare nessuno che sia più rock’n’roll, più sincero e più coraggioso di Iggy. È sempre stato avanti di 30 anni rispetto al suo tempo. Lavorare con lui ha riacceso la mia fede in questo genere musicale, la mia motivazione nella ricerca della propria strada a qualunque costo».

«Dopo il tour con Iggy ci siamo ritrovati con molti dei suoi suoni in testa», dice Van Leeuwen. «Gli album del suo periodo berlinese ci hanno sempre influenzato. Stare vicino a uno come Iggy ti fa venire voglia di muovere il culo e di darti da fare. Ha 70 anni e continua a fare musica, quindi muovi il culo e fai anche tu la tua parte: questo è il messaggio che manda a tutti noi».
Per quanto riguarda i T. Rex, Josh Homme dice di aver preso spunto dal suono «simile a quello di eteree creature marine» dei loro cori, quelle acute interazioni vocali che si sentono nelle loro canzoni, e che spesso sembrano fuori luogo rispetto alla musica: «Ho sempre trovato divertente la voce maschile che suona come un grido, come la moglie di Archie Bunker, quando lo rimprovera nel telefilm Arcibaldo».

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«Il suono della chitarra spazia dai T. Rex ai Jesus Lizard, fino a Duane Denison», dice Van Leeuwen. «Duane aveva un suono asciutto, quindi se hai tre chitarristi nella band devi dividere le frequenze tra i tre strumenti. Josh ha il suo suono distintivo, io e Dean Fertita ci dobbiamo scambiare la frequenza più alta, che è quella dove succedono un sacco di cose».

C’è anche un accenno ai Georgia Satellites in Un-Reborn Again, in cui Josh Homme cita una strofa di Keep Your Hands to Yourself: «È un grande pezzo, e quando ero piccolo adoravo il video, in cui i membri della band suonavano su un camion. Sono del Sud, ma sembrano venire dal deserto come noi. Indossano t-shirt e jeans, hanno un che di assolutamente innocente».

Ultimamente Homme ha riempito il suo stereo di musica positiva: «Mi piace ascoltare musica soprattutto al mattino, è un modo per creare l’atmosfera, che dura poi tutta quanta la giornata. Ho ascoltato molto Cab Calloway e Dean Martin: è impossibile essere di cattivo umore dopo aver sentito Minnie the Moocher oppure Mambo Italiano. Sfido chiunque a dire che mi sbaglio». Van Leeuwen dice che l’influenza di Cab Calloway si sente chiaramente nel primo pezzo pubblicato su Villains, The Way You Used to Do: «Ha un non so che di swing, è un po’ come Calloway in speed».

Foto Matt Helders

Oltre a esplorare canzoni più veloci, i Queens of the Stone Age hanno trovato altri modi per fare sembrare la loro musica meno seria, rispetto al passato. Il cantante Josh Homme dice di aver iniziato a scrivere in modo “orbitale”, «nel senso che ascolti una strofa e ti sembra in un modo, ma la volta successiva solo il 60 per cento sarà uguale a quella precedente. C’è sempre un elemento nuovo con cui bisogna fare i conti. La musica cambia continuamente: anche dopo il cinquantesimo ascolto puoi stare sicuro che sentirai qualcosa di diverso. L’obiettivo era fare qualcosa che ci mettesse seriamente alla prova come band, e che allo stesso tempo potesse rappresentare una sfida per il nostro pubblico».

Questo non vuole dire che i Queens of the Stone Age non si vogliano più divertire: «Suoniamo rock’n’roll e, ora più che mai, le persone hanno bisogno di godersi la vita», conclude Van Leeuwen, «noi compresi». Ma, più di ogni altra cosa, Josh Homme vuole che la gente ascolti il disco e provi qualcosa: «Voglio prendere le persone per il collo e dirgli: “Puoi usare i tuoi piedi per ballare al nostro ritmo. Oppure per andartene. L’unica cosa che non puoi davvero fare, è stare fermo!”».