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Hitmaker: intervista al produttore rap Big Fish

Il produttore Big Fish preferisce rimanere dietro le quinte, ma ha segnato la storia del rap italiano: dai Sottotono fino a Fabri Fibra

Hitmaker: intervista al produttore rap Big Fish

Big Fish. Foto press.

Quando ci sentiamo al telefono è appena tornato da Napoli: «Ho concluso un lavoro con Nino D’Angelo. Non ti posso dire con chi ha fatto il featuring, lo scoprirai più avanti. Io sono cresciuto ascoltando il rap, non mi sarei mai aspettato di fare una cosa simile. A te piace?». Ho risposto sì, ovvio. E dopo è seguita una lunga chiacchierata utile a farci capire molte cose: in primis il fatto che, nonostante i suoi quarantasei anni, Big Fish è ancora un ragazzino che si emoziona appena ascolta qualcosa di nuovo; e poi che preferisce rimanere dietro le quinte anche quando mette a segno le hit più grandi. Se, poi, glielo si fa notare – ad esempio come nel caso di quel capolavoro di base fatta per Stavo pensando a te di Fabri Fibra, che piace a tutti, dal suo panettiere fino ad Albertino – risponde che è strano ricevere così tanta attenzione. Sarà che per lui non è importante sapersi vendere bene e rimanere alla moda, quanto venire ricordati per i dischi che ha prodotto, come dargli torto. In fondo l’hip hop è stata una rivoluzione che gli ha cambiato la vita, tutto merito di Jovanotti, dice. Qui vi raccontiamo il resto della storia.

Partiamo dall’ABC: sei tu che cerchi i rapper con cui collaborare oppure produci le basi e poi le vendi al miglior offerente?
Nel rap di solito succede che l’mc chiede le basi al produttore. Lo facevo con Tormento ai tempi dei Sottotono e l’ho fatto per molti anni a seguire, poi ho capito che era più importante creare delle produzioni ad hoc. Capita ancora che i rapper vengano in studio a sentire i miei lavori, oppure che mi chiedano i campioni vocali e le topline di riferimento per scrivere il brano, ma è molto più interessante quando si crea direttamente il pezzo insieme.

Come si matura questo tipo di consapevolezza?
Anche se inconsciamente non te ne accorgi, all’inizio fai a gara per far vedere quanto sei bravo. Nelle basi ci mettevo di tutto – batteria, basso, pianoforte, piano elettrico, archi, moog, ecc. – erano talmente complete che Tormento non sapeva mai cosa aggiungerci. L’errore stava nel credere di aver fatto il mio dovere egregiamente pur non preoccupandomi delle sue esigenze. Dal momento che anche lui voleva dare il massimo, ne usciva una “base-pachiderma” con moltissimi strumenti a cui si sommavano altrettante linee vocali. Ho poi capito che il mio ruolo consisteva nell’arrivare al 50% del lavoro, il resto lo doveva fare l’mc. Come Drake ci insegna, basta pochissimo perché un pezzo giri bene.

Negli ultimi anni i producer hanno acquisito molta più visibilità rispetto al passato. Oggi Mark Ronson ruba la scena agli stessi artisti con cui collabora, perché?
C’è più bisogno di produttori rispetto ad un tempo. Ormai sono diventati degli stilisti, sono quelli che, in buona sostanza, ti fanno diventare di moda. Lady Gaga potrebbe benissimo fare a meno di Mark Ronson, ma non sarebbe così alla moda… In più c’è da dire che ci sono produttori bravi a vendersi bene e altri, come Rick Rubin, che invece sono considerati importanti esclusivamente per i dischi che hanno fatto. Io preferirei rientrare in questa seconda categoria. Voglio fare delle cose ed essere riconosciuto per quelle. Punto.

Ti piace così tanto rimanere dietro le quinte?
Mi interessa fare il mio lavoro. Non mi interessa prendermi il merito di determinati successi, non chiedo nemmeno che il mio nome compaia nei titoli dei video. Sarebbe come un calciatore che vuole a tutti i costi ricordare ai giornalisti di aver fatto cinquanta goal a stagione, risulterebbe un po’ fastidioso, no? Cerco di stare al mio posto.

Big Fish. Foto Press.

A te il pop piace? Quello alla Sia o alla Chainsmokers per intenderci.
Ma secondo te esiste il pop? Quanto sento i discografici parlarne non sono mai così sicuro che sappiano davvero cosa sia. Sembra sia diventata la musica che viene “rovinata” apposta nella speranza che entri nelle chart. A differenza di come la pensano in molti, per me non è un genere preciso, una hit pop può essere reggae, dance, rock. Quando un rapper vuole fare un singolo pop, non so mai cosa rispondere.

In realtà mi riferivo a Moves, il tuo singolo uscito l’anno scorso.
Io ho cercato di fare una cosa che mi piacesse, probabilmente non è nemmeno così pop perché non ha avuto lo stesso successo di Sia (ride). Ti dico la verità, sono pezzi a cui lavoro quando ho tempo, alcuni escono per etichette straniere più importanti, altri su label più piccole. Non vado a cercare la hit, se poi un pezzo funziona tanto meglio. I Chainsmokers li seguo da tempo, alcune loro tracce sono veramente bellissime e credo che gli vada riconosciuto il merito di aver reso nazional-popolare un genere come la future bass, ma non mi metto a studiare Spotify solo per riuscire a fare un pezzo alla Chainsmokers, se è questo che intendi.

Se ti definisco un bastian contrario ne sei lusingato o ti offendi?
Guarda, io cerco di essere me stesso. Ho quarantasei anni, non sono più un ragazzino ma lo sono sicuramente di più di altri miei coetanei. Se quando vado a correre scopro su Spotify una canzone che mi piace poi devo tornare subito a casa per riascoltarla meglio. Ce l’ho ancora quel tipo di passione. Quando sono impazzito per la dubstep l’ho seguita a fondo per anni e poi, quando non mi sembrava avesse più niente da dire – in pratica è diventato heavy metal elettronico – l’ho abbandonata. Mi interessa stare bene seguendo il mio istinto. Ho sempre ascoltato hip hop e, se avessi continuato farlo quando è diventato popolarissimo in Italia, ora avrei qualche soldo in più da parte. Non escludo che adesso, quando tutti dicono che l’indie spodesterà il rap, ritorni a fare basi boom bap. Non voglio uniformarmi a quello che è richiesto dalla tendenza del momento. Forse, più semplicemente, c’è gente più brava di me a scrivere le hit. È come voler fare il modello quando non sei così alto e bello. Fai altro, no?

È frustrante essere costantemente fuori moda?
Ma io non sono fuori moda, anzi, sono più alla moda io rispetto a quelli che pensano di esserlo.

Provocazioni a parte, non è vero che non sei bravo a fare le hit: da Maracanà fino alle ultime di Jake La Furia, come si costruisce un pezzo destinato al grande pubblico?
Ti assicuro che con Jake è sempre un piacere lavorare, in studio ci divertiamo come pazzi. Non voglio fare la musica colta, l’importante è che ci sia un’idea chiara in modo che si possa procedere tutti nella stessa direzione. Che sia Maracanà o il pezzo con Rancore, per me non c’è differenza.

Un’altra delle tue hit è Stavo pensando a te. Nella nostra intervista Fabri Fibra ha detto che di basi così ne arriva una ogni 50 anni nel rap italiano. Vuoi lasciare un tuo commento a riguardo?
Ovviamente sono fiero di un elogio simile, soprattutto se fatto da uno come Fibra che, oltre ad essere un amico, lo considero uno dei più grandi professionisti che abbiamo in Italia. La cosa assurda è che per quella base ho ricevuto i complimenti dalle persone più diverse, dal mio panettiere fino a Malika Ayane, Albertino, Fabio Volo o i giornalisti che incontro all’aeroporto. È una figata, sia chiaro, ma è una cosa un po’ strana per me avere tutta questa attenzione.

Secondo te perché quel pezzo ha funzionato così tanto?
Perché per la prima volta Fibra ha fatto un pezzo d’amore. È una canzone molto intima. Pensa che non ero nemmeno così convinto che la base gli piacesse, quando gliel’ho mandata immaginavo che mi rispondesse con degli insulti, invece ne fu entusiasta. Mi disse una cosa su cui ho ragionato parecchio: è come una base dei Sottotono ma fatta nel 2018.

I Sottotono sono stati sicuramente uno dei primi gruppi rap a riempire un palazzetto dello sport. Ieri come oggi, in Italia abbiamo un problema con il successo?
Sì, perché tutti lo vogliono senza meritarselo. Vogliamo svoltare e vogliamo farlo nel minor tempo possibile. È una corsa al successo, vedi che gli altri hanno successo e allora lo vuoi anche tu, anche se non hai voglia di costruire davvero qualcosa. Nella musica bisogna lavorare duramente e tanto, e non è escluso che tu non ne abbia mai di successo.

Come si arriva a pubblicare una propria traccia su Mad Decent?
Avendo una grossa faccia di tolla, per non dire altro (ride). Devi continuare a mandare mail cercando di trovare i contatti degli A&R o di Diplo. Poi, ti dirò, è più facile parlare con lui che con molti rapper italiani. Magari ho avuto solo fortuna, magari i miei pezzi gli sono davvero piaciuti.

La dance italiana oggi è ancora competitiva con l’estero?
No. Il grosso problema della dance italiana, oggi, è che non esiste più la dance italiana. Ci sono i tarocchi della bass house americana o della dance olandese. Ne discutevo tempo fa con Albertino – che è un grandissimo esperto – e conveniva con me sul fatto che la cosiddetta italo-dance oggi è sparita. Tu di che anno sei?

1982.
Allora ti ricorderai sicuramente di Found Love dei Double Dee. C’è stato un momento dove i nostri producer avevano successo in tutto il mondo pur mantenendo uno stile preciso e riconoscibile. Ora tutti tentano di uniformarsi nella speranza di uscire sulle più grandi etichette americane o olandesi.

Ne parlavo tempo fa con Alexia, qual è secondo te il nostro miglior pregio?
Le melodie, senza dubbio.

Quali sono i nuovi producer su cui puntare?
Ce ne sono tanti, dei miei ti direi Rhade, Kende e altri ancora. Al di fuori del roster Doner Music – la mia etichetta – ti cito Tha Supreme, che non so nemmeno che faccia abbia ma è davvero molto bravo, oppure Chris Nolan. Entrambi sanno fare la differenza, sono riusciti a fare trap ma in modo diverso. Al momento sono alla ricerca di un produttore in grado di rimettere a nuovo determinati suoni vecchi, che sappia fare la boom bap del 2018.

Di un progetto come Liberato che ne pensi?
È figo. Le basi sono belle, che gli vuoi dire a Liberato? Se fossero tutte così le produzioni in Italia saremmo a cavallo (ride).

Quel è l’errore che un produttore non dovrebbe mai fare ma che puntualmente fa?
Come dicevamo prima, voler essere il protagonista e non mettersi a servizio della canzone. E poi quello di non farsi pagare, i producer giovani spesso prendono la cosa con troppa leggerezza, poi succede che l’artista va in giro a guadagnare dai live e loro rimangono in cameretta a contare le views su YouTube. Bisogna essere chiari fin dall’inizio: se si crea un progetto insieme in cui rapper e producer investono le proprie risorse allo stesso modo, bene, altrimenti chi lavora dev’essere pagato.

Il tuo limite più grande qual è?
Non ho più la pazienza di stare in studio con persone che non mi stanno ad ascoltare, o meglio, che credono di sapere tutto ma che, poi, non sanno niente. Ormai ho le antenne piuttosto allenate in tal senso. Posso fare giornate intere con Fibra, con Jake, con Low Low, ecc, ma quando c’è un artista – o presunto tale – che non sa quello che vuole lo capisco quasi subito. A quel punto diventa dura per me continuare a lavorare.

C’è un disco che ti ha fatto capire che avresti fatto musica per tutta la vita?
Ce ne sono tanti. Ho iniziato a seguire questo genere verso la fine degli anni ’80 grazie a Jovanotti e al suo programma su Radio Deejay. Passava un sacco di rap e di house americana che, in quegli anni, erano più o meno le stessa cosa, ovvero musica fatta con i campionatori nelle cantine. Quando ho sentito per la prima volta Beat Dis di Boom The Bass non ci credevo: in quella traccia c’era tutto, da Pump up the volume dei Marrs fino ai Coldcut. Per me è stata una rivoluzione, potevo comporre una traccia senza aver bisogno di prendere lezioni di piano. Ha cambiato totalmente il mio approccio alle cose: tieni presente che prima io non ho mai ascoltato nulla, non mi interessava, quando ho scoperto l’hip hop ne sono rimasto completamente colpito e, a qurantasei anni, sono ancora qui che mi emoziono come un ragazzino. È incredibile, no?

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