Primo Maggio: il Concertone compie venticinque anni e li sente tutti | Rolling Stone Italia
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Primo Maggio: il Concertone compie
venticinque anni e li sente tutti

Prima c'era un Concertone, ora ce ne sono due che si spartiscono gli artisti in maniera abbastanza equa. È cambiato tutto per non cambiare niente

Hanno eseguito un pezzo nuovo – Andiamo a Londra – che sembra uscire dritto dritto da Young Americans di David Bowie

Hanno eseguito un pezzo nuovo – Andiamo a Londra – che sembra uscire dritto dritto da Young Americans di David Bowie

I Bluvertigo hanno eseguito un pezzo nuovo – Andiamo a Londra – che sembra uscire dritto dritto da Young Americans di David Bowie

Quando ero un adolescente aspettavo il concerto del Primo Maggio in Piazza San Giovanni – per brevità chiamato il Concertone – più o meno come i Testimoni di Geova attendono la fine del mondo, con la differenza che la fine del mondo per ora non è arrivata, e invece il Concertone arrivava sempre.

primo maggio

Quella data era un cerchietto rosso sul calendario, un giorno speciale in cui valeva tutto, un concerto che somigliava a un’avventura e che comprendeva levatacce, lunghe camminate per raggiungere la piazza e ore e ore passate sotto il sole – o la pioggia, quando andava male – ad aspettare che la musica iniziasse, ingannando il tempo facendo conoscenza con gente arrivata lì da tutta Italia e che sembrava condividere il tuo approccio alla vita, all’arte, e alla politica.


Ecco, la faccenda dell’appartenenza può fare tenerezza e tirata in ballo oggi appare tanto anacronistica quanto ingenua, ma avere tredici, quattordici o quindici anni negli anni ’90 era diverso da avere tredici, quattordici o quindici anni adesso. All’epoca trovare “una casa” era fondamentale, sentirsi parte di un qualcosa, riconoscere e riconoscersi in dei simili appariva quasi necessario. E poco importa se l’iconografia che accompagnava il Concerto del Primo Maggio – le bandiere rosse, le magliette del Che – appariva già vecchia e superata anche all’epoca: quell’iconografia era tutto quello che ci rendeva uniti e riconoscibili, diversi da quelli che volevano il Miracolo Italiano e – perdonatemi – ribelli.


Certo, al centro di tutto c’era comunque la musica e la possibilità di assistere gratis a un evento che metteva in fila grandi nomi ed emergenti di quelli che non sentivi in radio e non andavano a Sanremo, ma che in quel contesto diventavano big: al Concertone ho visto Sting e i Massimo Volume, gli Iron Maiden in uno degli ultimi concerti con Bruce Dickinson e gli Elio e le Storie Tese censurati. Ho visto i Flor e i Radiohead di The Bends, Lou Reed chitarra elettrica e voce e i Mau Mau, i Blur che festeggiavano per Tony Blair e Piero Pelù che insultava il Papa dal palco, Elvis Costello e gli Almamegretta che suonavano in anteprima i pezzi di Sanacore 1.9.95.

Al concerto del Primo Maggio ho imparato un sacco di cose: ho scoperto che il Tavernello caldo dà alla testa, e che è facile limonare con una calabrese dopo averci scambiato due parole e poi passarci sei ore insieme senza più guardarsi in faccia. Al Primo Maggio di Piazza San Giovanni mi sono divertito e mi sono annoiato, ho pianto, riso e litigato con gli amici. Nel 1997 una ragazza venuta appositamente da Lugano per vedere Jovanotti ha preso una mia mano e se l’è messa sul sedere. Non è successo niente, non abbiamo fatto niente, solo una mano sul sedere. E a me andava bene così.

Per tantissimo tempo non ho saltato neanche un’edizione, poi ho smesso: la manifestazione è diventata anacronistica come i sindacati che la organizzano, è rimasta rinchiusa in stessa finendo a essere la rappresentazione stanca di un cliché a uso e consumo della diretta televisiva. 
Ci sono tornato giusto un paio d’anni fa, per ragioni lavorative, e sono rimasto colpito dall’aria bassa che tirava: la piazza non era più piena come un tempo e l’atmosfera dietro le quinte appariva quasi tetra, tra presenzialisti, imbucati di ogni ordine e grado e il catering più triste dell’universo (quell’anno i musicisti dovevano pagare il loro cibo, e la cosa venne fatta passare come un segnale politico nell’epoca della crisi). Ricordo che all’alba di quella edizione se ne parlò come se fosse l’ultima.

La fine di un ciclo. Il ciclo del Concertone.
 E invece no: il Concertone c’è ancora e ha anche tagliato il traguardo del quarto di secolo. 
Nel frattempo, però, qualcosa effettivamente è cambiato: è nato, in maniera spontanea e dal basso, il Primo Maggio di Taranto, che ha catturato le istanze politiche di quello romano recidendo il cordone ombelicale con i sindacati e legandosi sempre di più alla società civile.
In tre edizioni, il concerto tarantino ha raggiunto – e forse anche superato – per presenze quello di Piazza San Giovanni. L’atmosfera è ovviamente più sincera e casereccia, non c’è la TV ( anche se quest’anno il tutto era trasmesso in diretta radio), ma l’impianto è sempre lo stesso: presentatori sul palco che annunciano le esibizioni e mini-live di tre o quattro pezzi ad artista.

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L’unico appunto che forse si può fare riguarda il cast: perché sul carrozzone di Taranto sono saliti tutti quegli artisti che nel corso degli ultimi anni avevano occupato militarmente Piazza San Giovanni (dagli Afterhours ai Subsonica passando per Caparezza). Come se a forza di voler creare un’alternativa si fosse finiti a dare vita a una replica: prima c’era un Concertone, ora ce ne sono due che si spartiscono gli artisti in maniera abbastanza equa. È cambiato tutto per non cambiare niente.

La grande eco mediatica di Taranto, però, ha spinto i sindacati a fare un passo indietro che in questi anni di nostalgia istantanea sembra quasi un passo avanti. Prima di tutto è cambiata l’organizzazione che si occupava dell’evento, e poi si è tornati a mettere al centro la piazza, evitando alcune delle derive assurde che avevano caratterizzato in negativo gli ultimi anni, segnati da esibizioni interrotte a metà dalla pubblicità – nel senso che le band sul palco smettevano di suonare per poi ricominciare – e di alcune scelte artistiche scellerate figlie dell’eccessiva talentizzazione della musica.

Per esigenze televisive, il Concerto del Primo Maggio era diventato quasi una sfilata di cover dove qualsiasi nome non del tutto emerso veniva invitato lì a patto di eseguire canzoni alla portata di tutti. Quindi sì, spazio ai volti nuovi, ma in prima serata ci finivano solo se eseguivano le solite quattro canzoni di Rino Gaetano, Lucio Dalla, De André, e De Gregori.
 Persino Nel blu dipinto di blu di Modugno e l’Inno di Mameli erano diventate “canzoni da Primo Maggio”. 
Certo, poi c’era comunque sempre lo spazio designato per una o più esecuzioni di i Bella Ciao.
 Bella Ciao ovunque, un sacco di Bella Ciao. Bella, ciao, Bella Ciao.

Non preoccupatevi, Bella Ciao si è sentita anche ieri, due volte. Una all’inizio della maratona, e poi eseguita da Goran Bregovic in versione canzone balcanosa (cit). 
Così come non è mancata la solita retorica da Primo Maggio su migranti, lavoro e solidarietà. 
Il cast, in compenso, era incredibilmente variegato e metteva in fila anche nomi che mai uno avrebbe pensato di associare a questo genere di concerto: c’era il pop da classifica, quello di Noemi ed Emis Killa, c’erano Paola Turci e Irene Grandi, i Lacuna Coil e Levante, James Senese e Nesli, gli Almamegretta e la PFM, Ruggeri e i Bluvertigo.

E c’erano J-Ax e Lo Stato Sociale: tra i pochissimi davvero in grado di coinvolgere una piazza apparsa in più di qualche momento addormentata e che hanno dimostrato quanto mondi all’apparenza lontanissimi siano in realtà vicinissimi. 
Uno sembrava il fratello maggiore – o lo Zio, per dirla come la direbbe lui – degli altri: stesso approccio finto-ludico e una visione politica più o meno simile, che unita al gusto per il colpo di teatro che cammina in bilico sul filo della polemica facile rende entrambi perfetti per fare breccia nel pubblico più giovane.

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Per il resto, di momenti davvero memorabili ce ne sono stati pochi: gli Almamegretta sembravano – non solo per via della scaletta – quelli del1995 (anzi, uno-nove-nove-cinque), Alpha Blondy quasi un pesce fuor d’acqua (se il tentativo era quello di riaprirsi agli ospiti internazionali poteva andare meglio), James Senese su quel palco potrebbe salirci ogni edizione, Ghemon forse meritava una collocazione più consona, Paola Turci sta via via diventando sempre di più la Patti Smith italiana e i Bluvertigo sono sempre i Bluvertigo.


Anche se Morgan ha smesso da un pezzo di avere la voce, sul palco sembrano una spanna sopra tutti gli altri. Hanno eseguito un pezzo nuovo – Andiamo a Londra – che sembra uscire dritto dritto da Young Americans di David Bowie. Si sa, con i Bluvertigo va così: ‘sta mano po esse’ fero e po esse’ piuma, po esse’ Duran Duran, Bowie e Depeche Mode. Ieri è stata Bowie. 
Forse faranno un nuovo album – pare si chiamerà Tuono – forse no. Chissà. 


Si è tornati alla vecchia formula dei mini-live, quindi – a ognuno il suo set – mentre è stata ridotta all’osso la parte dedicata allo spettacolo puro. La musica è tornata a essere la cosa più importante del concerto del Primo Maggio e anche la scelta di avere concesso a una band come Lo Stato Sociale uno degli spazi di punta del prime time può essere vista come una mossa coraggiosa e che rimanda all’epoca d’oro del Concertone.

Piazza promossa, quindi, o almeno rimandata al prossimo anno, con tantissimi aspetti ancora da migliorare ma che già sembrano un passo avanti rispetto alla palude in cui la kermesse stagnava da ormai troppo tempo.
Lo stesso, però, non si può dire della diretta televisiva: Camila Raznovich si è dimostrata brava e professionale, lontana dagli urlacci dei conduttori delle ultime edizioni (quelle appaltate ai “cinematografari” di vario genere e natura) e capace di tenere il palco e la folla come pochi prima di lei – in questo si è rivelata fondamentale la scuola MTV – eppure la TV sembra ancora non essere riuscita a trovare il modo giusto per raccontare un evento di queste dimensioni.
Paradossalmente, era molto più divertente seguire il concerto attraverso Periscope.

Tra le varie cose che non hanno funzionato merita una menzione particolare l’idea di far intervenire Camila tra un pezzo e l’altro, in modo che ogni parola rivolta dai musicisti alla piazza non arrivasse al pubblico della diretta televisiva. Negli anni ’90, quando eravamo più giovani, ingenui e con le mani sul culo di una ragazza venuta dalla Svizzera, l’avremmo definita censura.

Ora no. Ora non si può più.