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Pete Townshend: «Siamo una tribute band degli Who»

Finito l’ultimo tour della band, farà concerti da solista e con Daltrey e finirà di scrivere l’album ispirato al libro ‘The Age of Anxiety’. «Voglio continuare a essere creativo e suscitare conversazioni sulla musica»

Foto: Elena Di Vincenzo

«Siamo una tribute band degli Who». L’ha detto in una nuova intervista Pete Townsend, ci s’immagina col suo solito tono tra il serio e il paradossale. Parlando con Aarp, la rivista americana dedicata alla terza età a cui Bob Dylan diede una decina d’anni fa una celebre intervista esclusiva, il musicista inglese parla della scelta di continuare dopo la morte di Keith Moon del 1978 e anche dopo quella di John Entwistle avvenuta nel 2002.

«È un brand, non una band», dice degli Who. «Io e Roger abbiamo un preciso dovere nei confronti della musica e della storia. Gli Who vendono ancora dischi e le famiglie Moon ed Entwistle sono diventate milionarie. C’è dell’altro in realtà: l’arte e il lavoro creativo esistono quando li pratichiamo. È una celebrazione. Siamo una tribute band degli Who».

Oltre a dirsi fortunato ad essere vivo, a sottolineare le differenze caratteriali con Roger Daltrey e a dire che Quadrophenia è il suo disco preferito degli Who, Townshend parla dei progetti futuri, dopo la fine del tour d’addio in corso nel Nord America. «Voglio continuare a essere creativo. Ho canzoni in varie fasi di sviluppo, 140 brani pronti per essere pubblicati. Per The Age of Anxiety (il disco di cui parla da tempo basato sul suo romanzo del 2019, ndr) ho 26 canzoni. Non è autobiografico, ma il percorso mentale che ho intrapreso attraverso la dipendenza e verso la riabilitazione mi ha portato a un punto in cui sento di poter scrivere di un personaggio giovane, genuino e realistico, che invece di essere depresso ha una certa acutezza mentale e una certa sensibilità e decide di impegnarsi a fondo per rendere il suo pubblico il più felice possibile».

Il protagonista è un armonicista che suona con una band in un piccolo club e «inizia a percepire l’ansia del pubblico, in particolare delle donne non più giovanissime, mamme che stanno fuggendo da qualcosa. Passano le serate insieme, bevono qualche drink, ridono. E lui inizia a capire quel che provano. In quanto artisti, musicisti, autori, pittori, speriamo di poter offrire una sorta di ponte alle persone che sono ansiose, che si sentono sole, che forse non provano la gioia collettiva che si sperimenta assistendo a un grande show, o quando ci si ritrova con qualcuno per cenare o altro». E così nel romanzo «ci sono conversazioni sulla funzione dell’arte e dei musicisti, che si tratti di gente che suona nei club o nei palasport. Scriverlo è stato catartico e chi l’ha letto dice che stimola la conversazione».

In futuro Townshend farà concerti solisti e qualche esibizione di beneficenza con Daltrey, «anche se raramente socializziamo». In quanto al licenziamento di Zak Starkey, sostituito da Scott Devours, dice che «uno dei problemi che Roger ha affrontato è stato che Zak è andato subito su Instagram e ha iniziato a parlare a vanvera e a difendersi in modo sfacciato».

Il tutto come è noto nasce da The Song Is Over, la canzone che dà il titolo al tour e che si è sentita a Milano per la prima volta dopo l’incidente alla Royal Albert Hall di marzo da cui è poi scaturito il licenziamento. «A metà circa Roger si è perso. S’è fermato, si è lamentato, ha parlato col suo tecnico del suono e si è infuriato. Sembrava che ce l’avesse con Zak, ma non era così. La cosa è diventata argomento di discussione tra i fan, sembrava che Roger avesse commesso un errore, in realtà c’era stato un problema tecnico. Il modo in cui Zak ha gestito la situazione è stato, suppongo, leggero, ma sai com’è fatto Roger».

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