Rolling Stone Italia

Perché abbiamo ancora bisogno dei Placebo

Siamo stati alla data milanese del tour per i 20 anni di carriera della band di Brian Molko. Una grande festa, per tutti
Brian Molko, foto di Michele Aldeghi

Brian Molko, foto di Michele Aldeghi

Probabilmente abbiamo ancora bisogno dei Placebo. È questo il messaggio della data sold out di Milano con cui la band di Brian Molko e Stefan Olsdal ha celebrato i 20 anni di carriera e l’uscita della raccolta A Place for Us to Dream. Abbiamo bisogno di una band così sfacciatamente romantica e malinconica, di un cantante che è sempre stato incapace di scrivere cose che non sente (nel bene e nel male) di un’idea di rock come scarica elettrica emotiva.

Abbiamo bisogno di Pure Morning e di una “drug song” come Special K che fa cantare in coro ad ogni pubblico del mondo l’incubo delle droghe che non ti fanno stare bene. Era una festa di compleanno, certo, come ha detto Brian Molko all’inizio del concerto, ma una di quelle feste di compleanno dove succedono cose strane: «Anche fare sesso, perché no?» dice ridendo, «Ma pensavo ad una cosa più semplice, per esempio divertirsi». Mettere insieme la scaletta di questo tour è stata durissima, hanno detto i Placebo, perché per la prima volta hanno voluto fare un regalo al pubblico e suonare le canzoni che tutti vogliono sentire. Anche se questo vuol dire riattraversare testi che risvegliano sentimenti lacerati, bisogni ed inquietudini di una gioventù fin troppo intensa. Ma alla fine l’hanno fatto, e il risultato sono due ore serrate, incalzanti, suonate alla perfezione, con un suono potente ed un tiro implacabile. Si sa che in molti casi le band del passato suonano meglio oggi dal vivo di quanto non abbiano fatto nei loro giorni di gloria. Perché hanno imparato a controllare la situazione, sanno quali sono gli errori da evitare, hanno messo da parte l’urgenza, l’ansia e il proprio ego e hanno capito come mettere le canzoni al centro di tutto, facendole suonare più forte.

È quello che è successo ai Placebo: in passato a volte sembravano essere travolti per primi da quelle ondate di energia elettrica che scaricavano sul pubblico nella speranza di capire qualcosa nel casino di rabbia, rivendicazione e dipendenze che si portavano dietro.
Adesso invece sono una macchina scintillante, puro dark elettrificato. Brian Molko è in forma, la voce è impeccabile e non ha più bisogno di inseguire il caos per essere in pace con sé stesso sul palco. Cortocircuito interessante quello che ci ha regalato un personaggio come Brian Molko: figlio di un banchiere, cresciuto in Lussemburgo in esclusive scuole private, spostato verso l’arte e l’esplorazione della decadenza dall’incontro con il rock: «David Bowie mi ha salvato la vita» ha sempre detto, «Avrei fatto qualsiasi cosa per non finire dietro ad una scrivania in banca».

Il primo concerto in Italia dei Placebo è stato l’8 febbraio del 1995 come spalla di Bowie nel tour di Outside al vecchio Palatrussardi di Milano. Per questo il momento centrale della scaletta è un omaggio al Duca Bianco che compare sui maxischermi mentre canta con Brian Molko quello che forse è il pezzo più bello dei Placebo: Without You I’m Nothing. Abbiamo bisogno di personaggi inaspettati come Brian Molko e di una band che dalla scintilla accesa da Bowie ha saputo creare un’identità, anticipando anche alcuni temi importanti dell’espressione artistica di questo decennio come la rivendicazione della libertà sessuale, la tolleranza e l’accettazione delle diversità qualunque esse siano. Stefan Olsdal lo ricorda alzando al cielo una chitarra con i colori della bandiera arcobaleno e dicendo: “Siate quello che volete essere”. E alla fine, dopo il doppio finale con Song to Say Goodbye e The Bitter End seguite da Teenage Angst, Nancy Boy e Infra-Red, mentre sugli schermi compare l’immagine di un pacchetto di sigarette con la faccia di Trump e la scritta “Nuoce gravemente a te e a chi ti sta intorno” e mentre il futuro della band dopo l’uscita del nuovo singolo Jesus Son non è stato ancora definito, anche Brian Molko dice che ha bisogno di noi: «Se non ci sarà l’apocalisse ambientale, noi torneremo».

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