Pablo Honey, 25 anni per il disco più brutto dei Radiohead | Rolling Stone Italia
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Pablo Honey, 25 anni per il disco più brutto dei Radiohead

Compie oggi un quarto di secolo il disco da sempre più maltrattato fra quelli composti dalla band di Thom Yorke, tra patemi d’amore e nevrosi da studente del college un po’ sfigato. Ma si sa, se volete la farfalla, dovete prima avere il verme.

Pablo Honey, 25 anni per il disco più brutto dei Radiohead

I Radiohead in una foto stampa di ‘Pablo Honey’, uscito il 22 febbraio 1993.

Il primo disco dei Radiohead compie un quarto di secolo, la stessa età che aveva Thom Yorke quando fu pubblicato e nel quale sostanzialmente ci sono tutte le sue frustrazioni, i patemi d’amore e le nevrosi da studente del college un po’ nerd, bruttino e sfigato. È curioso che il disco in sé abbia assunto questo stesso ruolo all’interno della discografia dei Radiohead, considerato praticamente da tutti come quello più debole, incompleto, derivativo, insomma, il più brutto. Ma è davvero così? Sì. Non c’è niente da fare, è così e lo sarà anche fra un milione di anni. Ma questo non significa che non si possa voler bene a Pablo Honey, o apprezzarlo anche e soprattutto per il mesto candore che pervade ogni sua traccia.

Intanto potrei essere smentito così: numeri alla mano Creep è attualmente il brano dei Radiohead più ascoltato su Spotify, con i suoi più di duecentotrenta milioni ascolti (il doppio rispetto all’inseguitrice Karma Police), e anche se i numeri potrebbero essere stati gonfiati dal recente effetto Lana Del Rey – a proposito, nel caso in cui non lo sapeste, la stessa Creep è un plagio di The air that I breath dei The Hollies, con tanto di ammissione da parte di Thom Yorke & co che hanno inserito Albert Hammond e Mike Hazlewood tra gli autori – non è certo un mistero (pur rimanendo un mistero) che sia tuttora il singolo di maggiore successo della band di Oxford, la stessa che ha inciso Paranoid Android, Idioteque, I might be wrong.

Contestualizziamo: inizio anni Novanta, gli “On a friday” sono ancora degli studenti e si riuniscono per suonare in uno scantinato, tutti i venerdì, appunto. All’ingrosso sono due i mondi di riferimento dei giovani britannici dell’epoca: il grunge e l’acid-house ed entrambi non hanno nulla a che vedere con i primi demo degli “On a friday” – più vicini a una specie di shoe-gaze puerile – che comunque riescono a strappare un contratto e cambiano nome in Radiohead, dopo che Keith Wozencroft, rappresentate della EMI, gli suggerì una lista di pezzi da cui trarre ispirazione, tra cui Radio Head dei Talking Heads.

Esce l’ep Drill e il singolo Pop is dead, con annesso video nel quale un giovanissimo Thom Yorke è truccato come un personaggio di Tim Burton e incarna il pop di cui si celebra il funerale. Se non avete mai visto questo video e siete abituati all’immagine di un Thom Yorke con la barba incolta e un aura di introspezione e malinconia, preparatevi a veder tremare le vostre certezze.

Radiohead Pop Is Dead from Keleo on Vimeo.

Tuttavia non arrivano i risultati sperati. All’inizio del 1992 i Radiohead hanno già un potenziale repertorio per mettere su un disco, hanno anche inciso un sacco di pezzi che finiranno nei famigerati bootleg o come b-side dei successivi singoli, alcuni, come Banana Co o Inside my head sono anche discreti, ma non fecero breccia nel pubblico e passarono quasi inosservati. A questo punto la EMI fece l’ultimo tentativo prima di rassegnarsi all’idea di aver buttato un sacco di soldi per una band con dei tagli di capelli discutibili, destinata all’anonimato: nell’autunno assume come produttori Paul Q. Kolderie e Sean Slade, che avevano forgiato il sound dei Pixies e dei Dinosaur Jr. e spedisce tutta la combriccola in uno studio a Oxford.

La questione prende tutta un’altra piega quando esce la succitata Creep, che non doveva nemmeno diventare un singolo ed era stata bocciata dalla BBC Radio 1 in quanto “troppo deprimente”, mentre negli Stati Uniti la conoscevano già tutti a memoria e spalancarono ai Radiohead le porte del successo. Dopo altre tre settimane chiusi in studio, a fine anno i lavori si chiudono e il 22 febbraio 1993 esce Pablo Honey.

Una specie di parto prematuro del britpop, troppo debilitato per competere anche solo con il ben più solido Suede, l’omonimo esordio della band di Brett Anderson e Bernard Bulter, uscito a poche settimane di distanza e che allo stesso modo nacque senza dei precisi canoni di riferimento, anch’esso a metà tra contenuti tardo-adolescenziali e riferimenti androgini da icona pop anni Ottanta, Smiths, R.E.M. e riverberi, all’oscuro di tutto quello che sarebbe accaduto di lì a poco nel mondo della musica britannica.

È stupido valutare Pablo Honey alla luce di quella che è stata l’evoluzione artistica nella carriera dei Radiohead, sebbene sia quasi inspiegabile come possano aver scavato un solco quasi abissale già solo a un anno di distanza, con l’ep di My iron lung pubblicato nel 1994, che oltre a My iron lung contiene pezzi come The Trickster o You never wash up after yourself, che in confronto alla maggior parte dei pezzi di Pablo honey sono dei capolavori, se si considera che sono delle b-side e non bisogna neppure scomodare l’album successivo, The Bends (1995) che fa già parte di un altro universo.

Mi rendo conto che messa in questo modo forse è un tantino esagerato e se è vero che non avrebbe senso tentare di rivalutare Pablo Honey, non significa che sia composto da dodici brani che fanno tutti schifo. In realtà è un disco al quale sono molto affezionato e ho sempre pensato che se fosse uscito sotto forma di ep, con una tracklist più asciutta e priva di quei pezzi che per una buona metà sono a tutti gli effetti dei riempitivi, forse oggi saremmo qui a fare un altro discorso.

Un pezzo come You che è strutturato nei ben poco convenzionali 23/8 (pattern di quattro tempi composti da 6, 6, 6 e 5 battute) e che – non so quanto volontariamente – anticipa ritmiche conturbanti rielaborate nei dischi successivi, il trittico centrale composto da Stop whispering – che tuttora trovo commuovente ed emozionante – la ballata Thinking about you, l’unica canzone acustica di tutto il disco e la arrogante e distorta Anyone can play guitar, sono rilevanti in termini di ritornelli orecchiabili, presagi nei riff che diventeranno marchio di fabbrica in casa Greenwood e soprattutto per quanto riguarda i non trascurabili virtuosismi della voce di Thom Yorke, attorno al quale ruota tutto il sound, più di quanto accadrà in qualsiasi altro lavoro dei Radiohead.

Una nota a margine va dedicata alla bella Blow out, una lunga coda jazz conclusiva, che se proprio vogliamo trovare in questo esordio delle anticipazioni dei Radiohead futuri, bisogna dire che ricorda la Life in a glasshouse che chiude il capolavoro Amnesiac. Ciò nonostante, non basta. Probabilmente il povero Pablo Honey non vivrà mai nessun revival e rimarrà per sempre il disco più brutto dei Radiohead, così come è stato per questi venticinque anni. Ma ricordate sempre: se volete la farfalla, dovete prima avere il verme.

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