«Ci dicevano: il rock va cantato in inglese. Oggi ai ragazzini dicono il contrario. È stata un po’ la nostra vittoria». Lo dice Omar Pedrini dei Timoria nella terza puntata di Milano sogna, il vodcast che racconta le vite dei musicisti che negli anni ’90 giravano attorno al Jungle Sound.
«Noi eravamo provinciali», dice Pedrini nella conversazione col padrone di casa Fabrizio Rioda, «anzi, io venivo dalla periferia della provincia e quello che succedeva a Milano era un po’ un mito. Qui trovammo nei Ritmo Tribale dei cugini milanesi. Venire al Jungle significava sentirsi parte del giro».
All’epoca «il passaparola, l’incontro, l’annusarsi erano fondamentali. Oggi invece vedo poco scambio umano, non ci si annusa più. Non pensavi a comunicare, pensavi a fare. Oggi ti bruci nell’ansia di comunicare tutto e subito». Pedrini non vuole «fare il vecchio nostalgico», ma a proposito dell’epoca in cui viviamo nel corso della conversazione, che è stata registrata prima delle recenti polemiche sui concerti, dice che «i numeri sono diventati la nuova bibbia, un’ossessione. Ci sono artisti che se non fanno sold out si sentono in imbarazzo. Si inventano i sold out laddove non ci sono. Perché un artista per avere un momento di gloria deve per forza fare il Forum?».
Da dove ripartire, allora? Pedrini ha un suggerimento per chi gestisce la cosa pubblica: «Ricreare degli spazi anche piccoli dove esibirsi, dove è importante esserci anche se fai solo 100 persone. Avere dei luoghi dove i ragazzi possono esprimersi e buttare fuori le loro verità, i loro problemi, le loro idee. Io sono cresciuto in periferia a Brescia, sono nato in Via Uberti davanti a una Casa del popolo e non hai idea di quante cose ho imparato grazie a quel palchettino lì. Gli spazi sono importanti».