Noi che ci siamo vergognati di ascoltare Claudio Baglioni | Rolling Stone Italia
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Noi che ci siamo vergognati di ascoltare Claudio Baglioni

Trovarlo sul palco dell'Ariston è stato un sollievo: lui che scriveva dei sogni che sapevamo non si sarebbero mai avverati, noi che lo ascoltavamo di nascosto dopo aver appeso il chiodo.

Noi che ci siamo vergognati di ascoltare Claudio Baglioni

Claudio Baglioni, foto Sanremo / IPA

Claudio Baglioni, per i maschi della mia generazione, era quello che scriveva le canzoni d’amore che le ragazzine ascoltavano in estasi quando si innamoravano e in lacrime quando venivano lasciate, e stava nettamente sul cazzo per il fatto che tutte, ma proprio tutte, erano incondizionatamente pazze di lui. Musicalmente, i maschi della mia generazione, ascoltavano altro, il cantautorato di De André, di Guccini, l’hard rock dei Black Sabbath, dei Deep Purple, degli Uriah Heep, i Led Zeppelin, ma la fighetteria snob, che detto così ora fa ridere, si sbrodolava e commentava la batteria di Phil Collins in Supper’s Ready dei Genesis, o le fughe di Emerson in Trilogy e che gran pezzo fosse The Endless Enigma, per non parlare degli Yes, dei Pink Floyd, perché il Prog faceva tendenza, oltre che piacere, e se per caso nominavi gente come Baglioni senza dire, come gli Squallor, Bagliore, venivi preso a calci in culo e bandito dalla comunità.

La verità è che lo si ascoltava di nascosto, dopo aver appeso il chiodo e indossato il pigiamino, nel buio di una cameretta piena di polvere e di Tex Willer, pensando alla figura di merda patita a scuola con la compagna di banco a cui stavi dietro dall’asilo e che non ti si filava per niente, e pregavi di trovare il coraggio di dirle qualcosa prima o poi, caro Gesù, Giuseppe Maria siate la salvezza dell’anima mia.

E spesso pensavi che questo Baglioni qui non era male, che aveva una bella voce, e che non ti sarebbe dispiaciuto invitare a un suo concerto il tuo amore segreto, che invece ci andava con un mezzo paninaro armato di PX 125. La mattina poi duplicavi un misto Saxon-AC/DC su una Ilford 46 e uscivi di casa senza pensare più a niente. Ma gli anni passano, e alla fine i sorrisi prendono il posto delle vergogne, e canticchi Signora Lia a tuo nipote mentre lo accompagni in piscina, compri un CD con tutti i successi, compreso Questo Piccolo Grande Amore, per commuoverti alla sera brindando ai vecchi tempi, magari metti in piedi una macchinata per un live dove fai i cori e agiti l’accendino, e ti metti a piangere masticando Passerotto quando sei tu a venire piantato come un cretino.

Per i maschi della mia generazione trovare Baglioni sul palco dell’Ariston è stato un sollievo, anche se lo prendi un po’ in giro quando lo vedi arrivare ingessato dentro un abito che tu non indosseresti mai, forse un po’ fuori luogo nella veste che un tempo fu di Baudo e Bongiorno, eppure piano piano ti conquista, è simpatico, gentile, affabile, mai sopra le righe, e un po’ qualcuno si lamenta che canta sempre, che magari è vero, ma quello sa fare, e pure molto bene, e alla fine chissenefrega. Pensi che ha quasi settant’anni, e che certo, è tirato, assomiglia a Lurch, ma ha un bel portamento, affascina, è figo, e se lo perculano in qualità di nonnetto ti girano le balle, perché è Claudio Baglioni che cazzo, uno che strappava reggipetti con uno sguardo, e che sta lì in piedi, con la faccia da buono di uno che se gli chiedi un favore non ti dice mai di no.

La verità è che i maschi della mia generazione adorano Baglioni, quello che scriveva dei sogni che sapevamo non si sarebbero mai avverati, perché è un grande musicista e una brava persona, anche se al Festival duetta con il Volo provocando la glaciazione interplanetaria definitiva degli zebedei dell’umanità senziente, e speri che il prossimo anno sia ancora lì, con il suo sorriso bonario e la sua voglia di guardare avanti, mentre tu maledici te stesso per il letto vuoto, la solitudine devastante e quel cazzo di chiodo appeso nell’armadio che ormai non ti sta più.

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