Nitro, intervista: «Il rap è la mia dipendenza» | Rolling Stone Italia
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Nitro: «Il rap è la mia dipendenza»

l live di Nitro è un’esplosione di rime ed effetti speciali. Così, con un disco underground, il rapper veneto fa il pieno a ogni data. Senza nemmeno più vomitare

Nitro Foto Alessandro Treves

Nitro Foto Alessandro Treves

«È tutta colpa del mio pessimo tempismo». Prima di rispondere alla mia ultima domanda, Nitro tira un grosso sospiro. Mi guarda dritto in faccia e, come ha fatto per tutta l’intervista, si prende una pausa per pesare le parole. Sono gli unici momenti di quiete che può permettersi prima di salire sul palco, che poi riempie con una cascata di rime lunga quasi due ore – 28 brani in scaletta, uno più serrato dell’altro. «Ho aspettato per una vita che la roba che ho sempre fatto diventasse la nuova moda del rap, che scoppiasse, come è successo negli ultimi tempi. Ora, a 12 anni da quando ho iniziato, sono ancora io quello diverso. Che cosa ti devo dire».

La questione mi è rimbalzata in testa in tutti i momenti della giornata passata con il rapper vicentino, in occasione della sua data al Live Club di Trezzo sull’Adda, alle porte di Milano. Già all’esterno del locale, dove incontro un pubblico inclassificabile, un’infinità di sottoculture diverse che credevo inconciliabili. Dallo sciroppo alle cannette, dalle magliette dei Nirvana a quelle di Iuter, Peroni da 66cl e cocktail modaioli. È molto bello. E funziona: il tour di No Comment ha accumulato un sold out dopo l’altro, senza inseguire niente e nessuno. «Io non so di dove sono, non so categorizzarmi nel mercato musicale», dice. «Dico il cazzo che mi pare dalla prima all’ultima parola, e ora faccio numeri da mainstream con un disco underground. Si può dire tutto, ma non che cerchi la melodia facile. La verità è che devi accettarti, per essere unico».

Entro nel locale e incontro Nitro, mentre cena con la sua crew. Sa di somigliare più a uno degli Opeth che a un rapper – capelli biondi e lunghi sulle spalle, felpa no-logo, pantaloni da lavoro e anfibi –, e questa consapevolezza gli dà una gravità insolita per un ragazzo di 25 anni. Nel backstage l’atmosfera è rilassata: Nitro e i suoi cantano Cose Preziose di Fritz da Cat e Kaos One come se fosse una ballata di Tiziano Ferro. «Inside jokes tra cantanti, capito?». «Sono sul palco da 12 anni frà, e questo tour ha una scaletta lunga e serrata, è tutto molto studiato. Ho capito di essere diventato grande quando ho cominciato a chiedere lo zenzero al posto del Montenegro», dice ridendo.

Lo zenzero serve a scaldare le corde vocali: Nitro ora fa il doppio lavoro, rime e vocalizzi, e reggere botta per due ore non è un compito facile per nessuno, soprattutto se hai un flow da ritiro della patente come il suo. Gli chiedo da dove arrivi questa attenzione alla salute. «Tutti siamo portati verso un certo tipo di dipendenze: la droga, l’alcool, il caffè, lo yogurt… Il segreto sta nel capire le priorità. La mia è il rap, soprattutto quello live. Farei qualsiasi cosa per la musica, anche imparare una coreografia». Non c’è neanche un’assurdità nel rider? «Solo lo zenzero. Ci sono tante cose che vorrei, ma che non posso chiedere».

Il Nitro-responsabile, però, esiste solo prima del concerto, quando nel backstage coesistono mamma, papà, fidanzata e i colleghi Dani Faiv e Lazza, che lo raggiungeranno sul palco per tre brani. «Fare il musicista è strano: lavori sempre quando gli altri fanno festa, sali sul palco e devi essere lucido. Poi scendi e i tuoi amici sono già ubriachi. Tu, invece, sei un cane appena uscito dalla gabbia, con tutta la tensione addosso. Insomma, nell’aftershow non sono responsabile di quello che dico o faccio», mi spiega, mentre la sua crew se la ride di gusto. Qualche minuto dopo, indossata la divisa per il live, la sua espressione si ribalta, le battute diventano silenzio quasi assoluto e la comunicazione ridotta all’indispensabile, per interagire con i fonici e con gli assistenti di palco.

La tripletta d’apertura – Buio Omega, Infamity Show e Violence – è una testata sui denti. Nitro salta, sale e scende dalle colonnine laterali, cammina sul palco affondando gli anfibi come se dovesse passarci attraverso. È un burattinaio, e il pubblico la sua collezione di marionette, che fa agitare (Ok Corral), cantare (San Junipero), o le due cose insieme (Storia di un defunto artista).

Non sembra affatto lo stesso che pochi minuti prima scherzava con la mamma e faceva la voce di Tiziano Ferro. «Il concerto è adrenalina pura, ma la tensione non mi blocca. Anzi, sono migliorato rispetto allo scorso tour, quando vomitavo prima di ogni concerto. Per No Comment è successo solo una volta, proprio ieri», mi dice quando gli chiedo a cosa serva quella mezz’ora di silenzio che si impone prima di ogni serata.

«Se i ragazzi non si muovono devi farlo tu. Devi fargli vedere che puoi fare la scimmia anche sparando 100 parole al secondo. L’isolamento, anche quello delle cuffie, mi fa guardare la gente in faccia. Sembra assurdo, ma è così». L’ultimo pezzo del set è Pleasantville, e uscendo dal locale penso al possibile futuro di un 25enne che è già arrivato a suonare un greatest hits di se stesso. «Il rapper che vuole salire di livello si presenta con la band, e così farò anche io. Voglio ripensare tutta la mia musica. Voglio l’assolo, la parte salsa, la variazione. Altrimenti non ha senso». E per il momento, invece, cosa si deve aspettare chi vede Nitro esibirsi su un palco? «Un fenomeno, un fenomeno».

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