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Mi chiamo Yasmine, la nomade

È il volto moderno della musica araba. E ora la sua “Aziza” è la perfetta colonna sonora per raccontare, in un film, tre donne arabe libere e rock&roll
Foto: Tania Feghali

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Ha collaborato con CocoRosie e Marc Colin dei Nouvelle Vague. Ha recitato e cantato nel cult movie di vampiri-rocker Solo gli amanti sopravvivono di Jim Jarmusch (2013). È l’unica musicista che canta in arabo capace di tenere concerti in tutto il mondo, dagli Usa al Kuwait, dal Marocco al Giappone.

Ma in Occidente non è una star. Non ancora, almeno. Il suo ultimo album, Al Jamilat (si potrebbe tradurre: “I belli”), è stato registrato tra N.Y., Londra, Parigi e Beirut, con la collaborazione di Luke Smith (Foals, Depeche Mode, Lily Allen) e Leo Abrahams (Brian Eno, Carl Barât).

È Yasmine Hamdan, nata a Beirut nel 1976 – per versatilità e carisma, potete schedarla nei vostri cervelli come la Madonna (o la Björk) di una parte del mondo su cui forse, musicalmente parlando, avevate qualche pregiudizio. Ma nell’underground mediorientale, Yasmine ha uno status di culto. Il suo electro-pop/folk è un mix di influenze del golfo Persico, chitarre touareg, buzuk anatolici, e sonorità occidentali moderne. E ora, la sua hit Aziza fa da colonna sonora al film Libere, disobbedienti, innamorate, nei cinema questo mese (vedi box). Devo anche aggiungere che Yasmine è una donna bellissima, e il fatto che questa intervista si sia svolta solo su Skype – ahimé voce, non video – è un cruccio che non mi lascerà tanto presto.

«Quando ho iniziato a lavorare su Al Jamilat», esordisce Yasmine nel suo inglese fluente, «volevo provare diverse strade. Ma, soprattutto, volevo essere a capo di tutto. Ed è quello che è successo. È un lavoro di rencontre (lo dice in francese, e suona bene), di incontro tra le persone. È un album di movimento, ha un’identità nomade».

La qualità più evidente di Al Jamilat è che le immagini di questo viaggio, le influenze che Yasmine ha assimilato – per storia personale, caso e curiosità – si combinano in modo organico. «Speravo di creare un disco molto arabo, e al tempo stesso aperto verso altri mondi. Volevo che gli strumenti locali andassero a tempo con strumentazioni occidentali come chitarre e batteria. Viviamo in un mondo in cui i confini cambiano in continuazione, le persone hanno identità differenti. È il modo in cui scrivo le mie canzoni. Mi piace pensare che abbiano confini flessibili».

Si potrebbe definire questo genere “world music”, ma in un senso nuovo: lontano da paternalismi, terzomondismi ecc., ma soprattutto da quel vago sapore di vecchio a cui spesso è associato. Insomma, la musica di Yasmine è molto cool. «Per chi ascolta rock, tutto ciò che non suona anglosassone è “world”, e per anni questa mi è sembrata una forma di discriminazione. Oggi vedo le cose diversamente. L’idea di una “world music” evoca un ambiente culturalmente ricco, un ibrido stimolante».

Mi domando se senta la pressione di essere una delle poche artiste a cantare in arabo a livello internazionale. Com’è che non ce ne sono di più, di Yasmine Hamdan? «Ce ne sono! E ognuna di loro fa la sua cosa, per il suo pubblico. Ma io non mi considero un’artista araba: mi considero un’artista, punto. Uso l’arabo come strumento per esprimere me stessa, come altri la pittura. Desidero che la mia musica superi il fattore geografico. Il problema di cantare in arabo è raggiungere un pubblico più vasto. Per questo sono necessarie le collaborazioni internazionali».

Le canzoni di Yasmine mi fanno un effetto simile a quelle di Bombino, il chitarrista nigeriano che canta in una lingua touareg ricca di strofe ricorrenti e assonanze. Nella sua musica ci si può perdere senza capire il testo: la voce diventa un mantra che unisce artista e ascoltatore. «È vero anche per me: in genere non do importanza al testo delle canzoni. A meno che non stia ascoltando un vero poeta, come Leonard Cohen».

Ho già detto che Yasmine è affascinante? E lei, negli anni, non ha certo rinunciato alla sua fotogenicità. Ma in un mondo che sembra avere sempre meno sfumature, una donna che canta in arabo, e non nasconde il proprio corpo, è probabilmente già una notizia. Il suo anticonformismo in alcuni Paesi potrebbe anche essere stigmatizzato: «Non è facile rispondere. Ci sono posti dove non posso fare un concerto, perché troverei un ambiente in cui non sarei a mio agio. In Arabia Saudita, per esempio, dove le donne devono essere completamente velate. Ma di solito il pubblico più scatenato lo incontro proprio nei Paesi arabi. Di recente ho cantato in Kuwait, e la gente era cool e rilassata. Ci era stato detto che alle donne non era permesso ballare sul palco, ma alla fine non abbiamo avuto problemi. In Egitto mi sono esibita sotto i Fratelli musulmani, durante il Ramadan, oltretutto, ed è stato uno dei miei live migliori. Anche in Turchia, che sta diventando sempre più autoritaria, il pubblico resiste, è fantastico, pazzo. Suonerò lì questa primavera, vieni a trovarmi!». E magari lo farò, cara Yasmine.

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