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Metallari in amore, quando le ballad diventano heavy

I Disturbed suonano Simon & Garfunkel, gli Alter Bridge un classico di Leonard Cohen. Cinque volte in cui il metal è diventato romantico

Metallari in amore, quando le ballad diventano heavy

Il metal, arcigno e fragoroso, ha un contrappunto intimo, cantautorale. Dai tempi dei Black Sabbath di Planet Caravan e Solitude e degli Uriah Heep di The Wizard e Lady in Black, la ballad è componente atavica dell’espressività heavy, inscindibile dagli assalti frontali più ruvidi. Questa urgenza melodica si è espressa pure in cover – a volte rispettose dell’originale, altre volte sacrileghe – di grandi ballate della storia pop. Ne abbiamo scelte cinque, per raccontare quanto lo spesso ghettizzato metal sia in simbiosi coi temi e con le visioni della musica popolare e, ancora di più, con l’emotività profonda che quasi mai gli viene riconosciuta.

1. “Diamonds and Rust” Judas Priest (Originale: Joan Baez)

Dopo il Sabba Nero, il Prete di Giuda. I Judas Priest del Metal God Rob Halford sono la band heavy archetipica, quella che ha forgiato i canoni (e gli stereotipi) del genere. Noti per inni al piombo fuso come Painkiller e Breaking the Law, i cinque di Birmingham hanno fissato pure lo stato dell’arte della ballata metal, con l’insuperata Dreamer Deceiver e lo spleen di Beyond the Realms of Death. Nel 1977 l’esperimento più azzardato della carriera: rifare in chiave heavy un brano della uber-figlia dei fiori Joan Baez. Un cingolato che fa un frontale con una bicicletta. Funziona: la cover diventa un fan favorite, in bilico tra distorsioni chitarristiche e interpretazione ammiccante. Il romanticismo originario (la canzone è dedicata a un amore perduto della Baez: nientepopodimeno che Bob Dylan) resta un po’ in disparte, almeno nella versione studio. Dal vivo Halford entra in un’intimità tattile con le parole della cantautrice. Forse, a 20 anni dal coming out, c’era già materiale per intravedere nei diamanti e polvere del titolo un rimando all’animo scisso tra machismo ed emotività del Metal God.

2. “Imagine” A Perfect Circle (Originale: John Lennon)

John Lennon è stato il musicista/intellettuale più influente degli anni ’70; Maynard Keenan – in coabitazione con Thom Yorke – il più decisivo dei secondi anni ’90-primi ’00. Dall’incontro-scontro tra i due non poteva che nascere un affresco apocalittico. Keenan mantiene l’onirismo della band madre Tool anche nel progetto più “light” A Perfect Circle. Il terzo disco degli APC (Emotive) è costituito da cover di brani di protesta. Dal What’s Going On di Marvin Gaye alla Joni Mitchell di The Fiddle and the Drum. Il momento cardine della tracklist è il rifacimento di Imagine. Dove Lennon era speranzoso, ingenuo, credulo, Keenan è nichilista, brutale, cinico. Inutile guardare avanti. Il domani di Lennon è qui; e fa schifo. Il testo, salmodiato dal frontman degli APC, cambia del tutto segno. Il video supporta la tesi: bombardamenti, post-consumismo, morte. E sono passati 13 anni. Fossero già esistiti i social, forse Keenan sarebbe stato ancora più incazzato.

3. “Hallelujah” Alter Bridge (Originale: Leonard Cohen)

Poteva il brano più coverizzato della storia di tutto non avere miliardi di cover metal? Dai Pain of Salvation ad Axel Rudi Pell, Hallelujah ha toccato i cuoricioni di schiere di metallari. Gli Alter Bridge sono nella zona di confine tra heavy, rock e pop, coi tre elementi che si sono incastrati a dovere in dischi come One Day Remains e Blackbird, pieni pure di spruzzate southern. L’ibridismo della band americana l’ha portata a esibirsi da headliner nei festival metal più importanti e pure a considerare con rispetto le roots folk-pop. Il frontman Myles Kennedy, già al tempo dei carneadi Mayfield Four, è stato accostato a Jeff Buckley, suo idolo vocale. Kennedy, rifacendo Hallelujah, guarda più al soffuso buckleyiano che al crooning di Cohen. La cover è impeccabile dal punto di vista tecnico ed espressivo; unica “pecca”: Kennedy è talmente bravo e intenso da sembrare Buckley. Buckley 2.0 che rifà Buckley che rifà Cohen. Da perderci la testa.

4. “Homesick” Rosetta (Originale: The Cure)

Come si coverizza una band incoverizzabile come i Cure? Risposta: non si coverizza. E se la si vuole coverizzare a tutti i costi? Si fa come i Rosetta. La band di Philadelphia, paladina di quel post-metal che sta a metà tra heavy e art rock, porta Homesick alle estreme conseguenze, facendola diventare de facto un’altra canzone. L’atmosfera sospesa, decadente, rimane; il resto si fa boato, deflagrazione, suono della fine dei tempi. Dove i Cure erano baudelairiani, i Rosetta stanno tra Asimov e Philip K. Dick. Viaggiatori delle stelle in orbita al di là della materia. Robert Smith sussurrava, Mike Armine vomita un growl ancestrale nel microfono. Il metal sa essere romantico; distruzione e creazione compenetrate l’una nell’altra.

5. “The Sound of Silence” Disturbed (Originale: Simon & Garfunkel)

I Disturbed sono riusciti nell’intento, quasi ossimorico per una band heavy, di entrare nel mainstream, per di più con una cover; per di più con la cover di una canzone pop, degli anni ‘60. Ce ne sarebbe abbastanza per togliere a David Draiman e soci il patentino di gruppo metal. E invece quanto fatto dai Disturbed ha una rilevanza addirittura sociopolitica. Senza snaturarsi, hanno risdoganato il reietto-metal nello sbrilluccicante mondo dello stardom musicale. Ospitate riverenti dal superconduttore USA Conan O’Brien e a X Factor, quasi 300 milioni di visualizzazioni su Youtube (l’originale ne ha la metà), endorsing ufficiale di sua maestà Paul Simon (che ha definito la cover una “meravigliosa reinterpretazione”). Attestati di stima che in ambito metal non si vedevano dai tempi di mai. Il rifacimento, oltretutto, è fedelissimo nello spirito alla versione primigenia. L’oscurità di cui cantavano Simon & Garfunkel è ancora lì da vedere, nascosta in bella vista. E che siano stati proprio dei metallari brutti e cattivi a ricacciarla fuori dalla soffitta è sintomatico: il metal è fatto della stessa materia di cui è fatta l’altra musica. Cuore, sangue e sentimenti.