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Ma tu chiamami Morrissey

«Sto mettendo su un gruppo e mi chiedevo se ti interesserebbe diventare il cantante». Nalla sua autobiografia edita da SUR, l'ex chitarrista degli Smiths ci racconta dell'incontro con il giovane Steven Morrissey
Foto di Angie Marr

Foto di Angie Marr

L’indomani era il mio giorno libero dal negozio. Andai in autobus fino a casa dei miei e cercai il numero di telefono di un ragazzo che abitava a Wythenshawe, Phil Fletcher, che avevo incontrato un paio di volte con Billy. Chiamai Phil e gli chiesi se aveva il numero di Steven Morrissey. Mi disse che non ce l’aveva, ma che la persona migliore a cui chiedere era Steve Pomfret, che abitava a due passi dai miei. Andai a casa sua e suonai il campanello. Steve o «Pommy», come lo chiamavano, aprì la porta e io gli dissi che stavo cercando l’indirizzo di Morrissey. Si infilò nel corridoio, mentre io aspettavo al sole. Quando tornò aveva in mano un foglietto con scritto 384 Kings Road. Me lo diede e quando lo guardai sentii che avevo sotto gli occhi un pezzo della storia della mia vita.

Alcune cose succedono e passano senza lasciare traccia, mentre di altre si sa che sono destinate a funzionare. In quell’esatto momento capii che il gruppo che stavo mettendo insieme sarebbe stato speciale; sapevo che sarebbe stato fantastico.
Pommy mi chiese quando ci sarei andato e risposi: «Ora». Poi mi chiese se sapevo dov’era e dissi: «No». La faccenda lo divertiva e, siccome non aveva niente da fare, si offrì di accompagnarmi. Pommy era simpatico a tutti, era molto gentile e disponibile. Gli chiesi se conosceva qualche bassista, ma la risposta era negativa, così gli chiesi se lui sapeva suonare il basso e rispose: «Non proprio». Parlammo di tutta la nuova musica che ci piaceva e per la maggior parte del tragitto in autobus per Stretford parlammo dei Gun Club, un nuovo gruppo che secondo me era il migliore in circolazione.

Era una bellissima giornata. L’estate era arrivata in anticipo e mentre camminavamo nella periferia sud di Manchester il sole gettava lunghe ombre sul marciapiede. Dopo dieci minuti arrivammo a una bifamiliare di mattoni rossi anonima ma gradevole con un cancelletto. Aprii il cancello, mi avvicinai alla porta e bussai. Nessuno rispose, così aspettai un attimo e riprovai. Finalmente sentii qualcuno sulle scale e la porta si aprì. Mi accolse una ragazza con i capelli biondi e modi cortesi, io salutai e chiesi se c’era Steven. «Vado a chiamarlo», disse. Dopo un po’ apparve un ragazzo.

«Ciao», gli dissi, «mi chiamo Johnny… e Pommy lo conosci già».
«Ciao, Steven», disse Pommy.
«Oh, ciao Pommy», rispose. La prima cosa che mi colpì di lui fu la voce: aveva un tono molto dolce e pacato. Si vedeva che era un po’ stupito per quei visitatori inaspettati, ma fu gentile e mi disse: «Ciao, piacere di conoscerti».
«Scusa se mi sono presentato a casa tua senza preavviso», spiegai, «è che sto mettendo su un gruppo e mi chiedevo se ti interesserebbe diventare il cantante».
«Entrate», disse lui, stranamente imperturbato per essere uno a cui era appena stato chiesto di entrare in un gruppo da un perfetto sconosciuto sulla porta di casa. Avevo una buona sensazione.

Seguii Morrissey su per le scale e notai come era vestito. Pantaloni di un completo e camicia elegante con sotto una t-shirt, e un cardigan largo. Non portava i capelli col ciuffo, ma un taglio corto anni Cinquanta; pensai che aveva un look simile ai ragazzi più grandi del giro della Factory, come gli A Certain Ratio, più da intellettuale topo di biblioteca che street. A metà delle scale c’era un cartonato a grandezza naturale di James Dean dal film Il gigante; entrando in camera sua vidi una macchina da scrivere. Io portavo Levi’s larghi anni Cinquanta con gli anfibi da motociclista e un gilet di Johnson’s. Avevo anche un berretto da aviatore e un enorme ciuffo tinto in diverse sfumature di rosso. Mi sedetti sul letto e Pommy su una sedia dall’altra parte della stanza e poi Morrissey, che era vicino al giradischi, disse: «Ti va di mettere un disco?». Mi avvicinai a una scatola di 45 giri che era su un cassettone e ispezionai tutte le etichette Decca e Pye fino ad arrivare a un disco Motown delle Marvelettes che mi piaceva, Paper Boy. Lo tirai fuori e Morrissey disse: «Ottima scelta»; poi lo girai e misi il lato B, che si chiamava You’re the One.

Parlammo del più e del meno e feci dei commenti sulla sua collezione di 45 giri rari della Motown. Mi chiese se ero mai stato in America e io gli parlai benissimo di Little by Little di Dusty Springfield. Lui mi fece ascoltare Message Understood di Sandie Shaw, che non avevo mai sentito, e poi A Lover’s Concerto dei Toys.
Poi parlammo di Billy Duffy e della sua ex, Karen Colcannon, che conoscevamo entrambi, e gli chiesi cosa era successo con i Nosebleeds. «Non è successo niente», disse, «non facevamo altro che aspettare». Spiegai che non avevo ancora trovato gli altri musicisti per il gruppo, anche se avevo in mente un paio di persone. Pensavo che avrei potuto rimettermi in contatto con Si Wolstencroft, dato che era un bravo batterista e aveva il look giusto.

Io e Morrissey eravamo molto a nostro agio l’uno con l’altro, non era per niente una situazione difficile, soprattutto se si pensa che stavo raccontando i miei sogni e le mie speranze a qualcuno che non avevo mai visto, nella sua camera. Sembrava una cosa del tutto spontanea e, per quanto lui avesse qualche anno più di me, tra di noi scattarono un’intesa e un’empatia immediate. Sapeva che facevo sul serio e che non raccontavo balle. Mentre accadeva tutto questo, Pommy stava seduto in un angolo e ci osservava. Capiva che stava succedendo qualcosa di speciale proprio davanti ai suoi occhi. Rimase sempre in silenzio, con un sorriso stampato in faccia. Quando fu ora di andare, Morrissey (o «Steven», come lo chiamavo io) mi diede un paio di fogli di carta con delle parole battute a macchina. «Canzoni», pensai, «è di questo che si tratta». Li infilai in una tasca del giubbotto e suggerii che mi chiamasse l’indomani a mezzogiorno al telefono di X-Clothes. Ci salutammo e appena uscii dal cancello al sole pensai: «Se chiama domani, questo gruppo si fa».

L’estratto di queste pagine è tratto da “Set the Boy Free”, l’autobiografia dell’ex chitarrista di Smiths, Modest Mouse e Cribs.

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