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Liam Gallagher ha conquistato Milano in meno di 30 secondi

Come un pugile, ma con le mani dietro la schiena, Our Kid ha trasformato la sua prima data italiana in un trionfo di cori da stadio. Il prossimo appuntamento? Sul palco degli I-Days 2018.

Foto Francesco Prandoni

Di solito quando un concerto dura meno di una partita di calcio è un problema. Ma non per Liam Gallagher, l’uomo immune da ogni dubbio su se stesso. Lui si è dato una missione: ritrovare un pubblico. È quello che gli è mancato di più da quando non esistono più gli Oasis, la vibrazione aggressiva che gli arriva da una folla di persone a cui non frega niente altro che di perdersi dentro un’ondata di volume e una melodia semplice, che lui si sente chiamato a scaricare dentro a un microfono cantando senza tecnica, affidandosi al puro istinto e alla personalità.

Perché l’unica misura possibile del successo per Liam Gallagher è la rivendicazione di uno stile che lui stesso ha definito “No-nonsense”, è un codice di appartenenza, una declinazione musicale della filosofia da stadio britannica: stand your ground. Per questo, anche se la sua attesissima prima data solista in Italia è durata meno di 90 minuti, lui aveva già vinto dopo trenta secondi, più o meno alla fine della prima strofa di Rock’n’Roll Star.

«Sono come un pugile che sale sul ring» aveva detto qualche mese fa a RS in occasione dell’uscita di As You Were, l’album che lo ha lanciato al n.1 in classifica in Inghilterra e nel 2017 ha segnato il record di vendite in vinile, «L’unica differenza è che io combatto con le mani dietro alla schiena perché non ho bisogno di colpire la gente per stenderla. Mi basta cantare». Durante il concerto al Fabrique di Milano Liam non sorride mai, non parla con il pubblico e non si slaccia mai la giacca con il cappuccio che tiene abbottonata fino al collo come se fosse sempre fuori dal pub o sulle gradinate dell’Etihad Stadium (lo stadio del Manchester City) e non sbaglia un attacco. Canta come non ha mai cantato in vita sua ed è accompagnato sul palco da una band di professionisti (tra cui il bassista dei Babyshambles Drew McConnell e il chitarrista Jay Mehler che oltre ad essere membro della tour band dei Kasabian è anche sposato con la figlia di Ringo Starr) che suonano meglio di qualsiasi versione degli Oasis mai esistita. La sua forza è sempre stata l’assenza di qualsiasi accenno di approfondimento o anche minima speculazione su quello che fa.

Anche adesso che ha compiuto 45 anni, con un misto di presenza scenica e strafottenza Liam Gallagher vive, interpreta e rappresenta tutto in maniera istintiva, senza farsi domande su niente: il rock’n’roll e la sua evoluzione, il ruolo delle band nella società britannica, le canzoni che diventano patrimonio culturale, la fede calcistica (tifa Manchester City come se fosse una necessità), persino le canzoni e il loro significato. «Non so suonare niente, il mio strumento è la voce» ha detto in un’intervista durante le date sold out dell’ultimo tour inglese. «Per tutta la vita ho cantato canzoni scritte da altri. Il punto è che quando ci metto le mani sopra le canzoni diventano mie. Le trasformo. Come faceva Elvis». C’è qualcosa di irresistibile nella sua strafottenza e nella sua presenza scenica.

L’idea che Liam vuole trasmettere al pubblico che ha finalmente ritrovato grazie alla voce intatta e alle canzoni cucite addosso su misura da un team di autori guidato da Greg Kurstin (da Wall of Glass a Greedy Soul alla splendida ballad Paper Crown), oltre a quelle che suo fratello Noel ha scritto quando aveva 25 anni, è che lui si trova lì, al centro del palco con le mani dietro alla schiena, perché qualcuno ci deve stare. E non può che essere lui, il capo della gang dei parka monkeys: «È come se qualcuno avesse tirato un fumogeno in mezzo alla gente» ha raccontato ai giornali inglesi, «Tutti scappano, e quando il fumo si dirada ci sono solo io, in piedi che grido: “Fatevi sotto, stronzi!”».

Il pubblico è con lui prima ancora che esca sul palco: «Liam! Liam! Liam!» si alza un coro da stadio sempre uguale, da Cardiff a Madrid. È uno dei pochi a scatenare in concerto un’energia nervosa, a catalizzare rabbia intorno ad una scaletta di canzoni costruita sull’attesa di un ritornello, di una strofa liberatoria non solo per una generazione di nostalgici ma per chiunque, come lui, non abbia bisogno di cercare nella musica rock niente di più di quello che ti può dare.

«Non ci si può sempre aspettare un miracolo dalle canzoni rock» ha detto. A tutte queste persone Liam Gallagher dà esattamente quello che vogliono: le strofe di Rock’n’Roll Star e Morning Glory per toglierti il fiato in apertura del concerto, otto canzoni da As You Were, il ritornello di Some Might Say, la doppia melodia di Slide Away poi Be Here Now e Wonderwall e il finale in cui sale sul palco anche Bonehead, l’amico di sempre di Burnage che ha fondato gli Oasis con lui, per Cigarettes & Alcohol e Live Forever. Il concerto dura meno di una partita di calcio, è vero. Ma in una partita ci sono le interruzioni di gioco, le simulazioni, e i momenti in cui le squadre difendono il risultato. Liam Gallagher invece non sa fare altro che attaccare.

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