L'eterno ritorno indie. Il concerto dei Pixies al Flowers Festival | Rolling Stone Italia
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L’eterno ritorno indie. Il concerto dei Pixies al Flowers Festival

Qualità del suono impeccabile, i quattro non lesinano certo su energia, volumi e pezzi da cantare. Ma quanto è stato bello stonare tutti insieme su "Where is My Mind?"

I Pixies al Flowers Festival di Collegno - Foto di Daniele Baldi

I Pixies al Flowers Festival di Collegno - Foto di Daniele Baldi

In una Domenica Sportiva di tanti anni fa, dovendo rendere conto di un tristissimo Milan-Inter finito 0-0, quel geniaccio di Beppe Viola trasmise le immagini di un derby di vent’anni prima, perché tutto sommato era più divertente quello. Con un concerto dei Pixies viene la tentazione di fare lo stesso, e riciclare una recensione qualunque di un loro live degli ultimi dodici anni. In questo caso non perché ci si è annoiati – tutt’altro – ma perché fondamentalmente un concerto dei Pixies post-reunion è sempre la stessa cosa. D’accordo: ogni tanto cambiano la bassista, e a essere onesti in questa unica data italiana al Flowers Festival di Collegno (Torino) hanno anche presentato qualche brano dall’album in uscita a settembre (eccellente, tra l’altro, la resa dal vivo del singolo Uhm Chagga Lagga, pezzaccio hardcore-garage non esattamente fantasioso ma trascinante il giusto) però di base è il consueto, eterno compendio da Surfer Rosa e Doolittle con qualcosa da Trompe le Monde (Subbaculthca e Planet of Sound) e la solita Velouria da Bossanova. Un Pixie-karaoke suonato con scioltezza, professionalità e zero empatia con il pubblico. Ma in fondo il patto è sempre stato chiaro: questo è quel che vogliamo da loro, questo è quello che otteniamo.

Frank Black, Joey Santiago e David Lovering fanno molto bene il loro lavoro, che è quello di portare in giro una sacra reliquia indie rock che i fedeli più o meno stagionati possono toccare con mano. Tutto quello che si vuole, alla fine, è ricordare i bei tempi fine anni 80 (o provare a immaginarseli), fare air-guitar su Vamos e cantare tutti in coro, stonando orribilmente, Where is My Mind? oppure Monkey Gone To Heaven. Da questo punto di vista niente da dire: serata perfetta, nonostante le secchiate di pioggia fuori stagione che a metà del concerto si sono abbattute sul pubblico.

NOME

Qualità del suono impeccabile, e certo i quattro non lesinano sull’energia e sui volumi. Partono con una tripletta sicura – River Euphrates/Hey/Break My Body – e poi via via snocciolano altri classici come Bone Machine, Gouge Away (con piacevoli riverberi psichedelici), Tony’s Theme. A proposito di quest’ultima: storicamente, una delle qualità richieste alla bassista del gruppo è scandire bene l’introduzione “this a story about a superhero named Tony” e va detto che Paz Lenchantin lo fa alla perfezione. Nel ruolo che fu di Kim Deal (e per pochissimo tempo anche di Kim Shattuck) se la cava egregiamente, e l’interazione con la drum-machine umana Lovering funziona in modo ottimale.

Santiago, da parte sua, è il solito istrione compassato – ossimoro che vale probabilmente solo per lui – mentre Frank Black guida la banda con l’autorevolezza che ci si aspetta. Il suo growl fa ancora saltuariamente impressione anche se la voce comincia a perdere qualche giro, soprattutto su Levitate Me e una zoppicante Here Comes Your Man. Rimane comunque Mister Simpatia: neanche una parola verso il pubblico, e raffinato sadismo nell’accennare Debaser e poi non suonarla per chissà quale motivo. Poco male, ci si è consolati con La-la-Love You e Holiday Song. Insomma: i ragazzi tengono ancora botta, ma più che altro sono le canzoni a reggere.

La vera sorpresa nell’andare a sentire i Pixies nel 2016 sta proprio nel constatare quanto tutti quei brani suonino ancora freschi, eccitanti, innovativi. Ma soprattutto diversi, nonostante gli innumerevoli tentativi di imitazione degli ultimi venticinque anni. A renderli tali ancora oggi è la loro intrinseca refrattarietà al banale. Le canzoni dei Pixies hanno questa straordinaria capacità di non usurarsi. Proprio per i meccanismi interni su cui si poggiano, non potranno mai sembrare normali. Neppure al millesimo concerto. Peraltro uguale agli altri novecentonovantanove.

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