Lester Bangs e la famosa recensione di "Led Zeppelin III" | Rolling Stone Italia
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Lester Bangs e la famosa recensione di “Led Zeppelin III”

Era il 1970 e il critico musicale di Rolling Stone scrisse una recensione del terzo disco degli Zeppelin che creò non poche polemiche.

Lester Bangs e la famosa recensione di “Led Zeppelin III”

Lester Bangs

Con questa recensione del novembre 1970 Lester Bangs, uno dei critici musicali più famosi di sempre, diede inizio a al rapporto burrascoso tra i Led Zeppelin e Rolling Stone.

Continuo a nutrire questa specie di odio-amore per i Led Zeppelin. In parte per via di un interesse genuino e per speranze indifendibili, in parte per la convinzione che nessuno di tanto rozzo possa essere così male, mi approccio a ogni nuovo album aspettandomi chissà cosa. Di sicuro non dei sottili rimandi ai monolitici Yardbirds, nemmeno esperimenti di vero blues, oppure chissà quale varietà di idee. Forse è solo che mi sembrano la versione anni Settanta del biblico Vitello d’oro.

Di tutte le band in circolazione, gli Zep sono davvero oggi: la loro musica è effimera come i fumetti della Marvel ma al contempo vivida come un vecchio cartone in Technicolor. Non sfida l’intelligenza o la sensibilità di nessuno, preferisce invece un impatto viscerale che assicurerà ai ragazzi una fama assoluta per molto tempo a venire. I loro album trasformano i rozzi attrezzi di quelle monotone blues band di bianchi in qualcosa di splendido nel suo insensibile schifo, come un film epico di Cecil B. DeMille. Se mi affido a così tante metafore visive e cinematografiche, è solo perché si prestano benissimo alla band. Non sono mai stato a un concerto degli Zep, ma alcuni amici (molti di loro sono il tipo di persona, devo ammettere, che ascolta tutto purché sia in condizioni pietose e a un volume inaudito) descrivono una fragorosa, indistinta onda di marea sonora che non assorbe ma avvolge per impedire ogni tipo di distrazione.

Il loro terzo album devia un pochino dal percorso tracciato dai primi due, anche se spesso e volentieri i pezzi sono acustici. La maggior parte di questi ultimi sembra normale materiale loro ma abbassato di decibel, mentre le incursioni più pesanti potrebbero tranquillamente essere pezzi esclusi da Zeppelin II. Anzi, la prima volta che ho ascoltato l’album il mio pensiero più concreto è stato il totale anonimato della maggior parte dei pezzi: nessuno potrebbe fraintendere la band, ma nessuno stratagemma riesce a emergere granché. Almeno non come ha fatto quella grandiosa e gioiosamente assurda eiaculazione vocale di Plant in stile orangutan che ha reso Whole Lotta Love un classico di basso livello. Immigrant Song ci arriva vicino, con i suoi ritmi bulldozer e i mugolii raddoppiati e senza parole di Bobby Plant che rimbombano dietro alla voce principale. Come una specie di coro cannibale che urla nella luce infernale di un selvaggio rito di fertilità. Di grandioso però, e qui sta il genio degli Zep, c’è che l’effetto finale è completamente bidimensionale e surreale. Potreste ascoltarlo, come ho fatto io, mentre guardate a volume zero una sacerdotessa pagana mentre si muove sulla danza rituale di Ka davanti all’altare sacrificale in fiamme di Fire Maidens Of Outer Space. E credetemi, gli Zep mi hanno fatto pulsare il sangue più freneticamente di quei ritmi tribali.

Sfortunatamente, quel che rimane dell’isteria di Z III è al contempo utile o troppo melodrammatico. Friends ha una buona base acustica un po’ amara, ma ci rinuncia dando tutto ai respiri striduli e monotoni di Plant. Rob, ascolta Iggy e gli Stooges.

Celebration Day e Out On The Tiles sono pezzi stampati in serie dagli Zeppelin che nessun fan potrebbe disprezzare e nessun altro potrebbe ascoltare facendo sforzo. Since I’Ve Been Loving You rappresenta invece la quota obbligatoria della lentissima e letalmente noiosa jam blues da sette minuti, e Hats Off to (Roy) Harper dedica un’insalata di bottleneck e scintillanti riverberi vocali a un menestrello inglese che, così mi è stato detto, va più verso alla tradizione dello spettacolo di varietà.

Buona parte di quel che resta, dopo un paio di ascolti per distinguere le canzoni, non è affatto male, perché i Led Zeppelin sono creativi quel tanto che basta per dare uno stimolo occasionale al loro materiale scadente e professionali abbastanza da tenere tutte le registrazioni relativamente pulite e chiare: puoi sentire nitidamente tutte le parti, che è molto più di ciò che si può dire per i colleghi.

Infine devo menzionare una canzone chiamata That’s The Way, perché è la loro prima canzone ad avermi sinceramente commosso. Mi venisse un colpo, è stupenda. Sopra un semplice e comunissimo riff acustico, Plant descrive una toccante immagine di due ragazzini che non possono più giocare insieme. I parenti e i pari di uno di questi disapprovano l’altro per via dei suoi capelli lunghi e perché viene dalla parte oscura della città. Per una volta, la voce qui è controllata. Anzi, l’intonazione della voce di Plant è lamentosamente soave come nelle migliori ballad dei Rascals. E un drone modulato elettronicamente ronza cupo nel sottofondo come le chiatte malinconiche di un porto mentre le parole cadono soffici come neve: “And yesterday I saw you standing by the river / I read those tears that filled your eyes / And all the fish that lay in dirty water dying / Had they got you hypnotized?” Bello e strano abbastanza, cari Zeppelin. Come disse Chuck Berry eoni fa, “ti mostra ciò di cui non ti accorgi mai”.

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