Led Zeppelin, tutti i segreti di 'Houses of the Holy' | Rolling Stone Italia
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Led Zeppelin, tutti i segreti di ‘Houses of the Holy’

Dai consigli di George Harrison alla parodia di James Brown, ecco 10 cose che non sapevate sul capolavoro del 1973.

Led Zeppelin, tutti i segreti di ‘Houses of the Holy’

«Il segreto dei Led Zeppelin è sempre stato la voglia di mettersi in discussione, cambiare tutto», proclamava nel 1975 Jimmy Page. Questo spirito esaltava alcuni fan e ne indisponeva altri, soprattutto quelli che volevano che la band non cambiasse coordinate artistiche. Ma dopo i tuoni dei primi album, il misticismo celtico di Led Zeppelin III e il rock monumentale di Led Zeppelin IV, con Houses of the Holy la band uscì da ogni confine di genere, dritta verso un orizzonte dalle possibilità infinite.

Ignorando il successo globale, gli Zeppelin hanno sempre seguito la loro ispirazione, sperimentando con generi insoliti – il reggae in D’Yer Mag’er, o il funky di The Crunge – e inventandone di nuovi – vedi alla voce No Quarter. Questo è il primo album interamente composto di materiale originale, ed è la dimostrazione lampante dell’evoluzione della loro scrittura, ormai lontana dal blues e dalle chitarre pirotecniche.

«Houses of the Holy è frutto di un periodo di grande ispirazione», diceva Plant nel ’91. «Un disco ricco di immaginazione». Ecco le 10 cose che (forse) non sapevate sul quinto album della band.

‘The Songs Remains the Same’ era in origine una strumentale chiamata ‘The Overture’

L’album si apre con un Page trionfale: il chitarrista ha strutturato il brano come una sorta di mini-suite. Accordi sospesi, acustica delicata, una composizione complessa che inizialmente si chiamava Worcester and Plumpton Races e doveva essere strumentale. La band l’ha presentata per la prima volta nel tour giapponese del ’72, e il titolo era The Overture. Il titolo che conosciamo tutti è figlio del testo di Plant. «Ogni volta che la canto penso al fatto che ho girato il mondo, e che c’è un comune denominatore tra tutti i posti che ho visitato», ha detto nel ’73.

George Harrison ha contribuito a ‘The Rain Song’

George Harrison era un grande fan degli Zeppelin. Dopo un concerto-maratona di tre ore a Los Angeles, Harrison si è presentato nel backstage dicendo: «Porca troia! Con i Beatles suonavamo una mezz’ora…». Tuttavia, il chitarrista era deluso dalla mancanza di momenti più delicati. «George diceva sempre a Bonzo che non avevamo ballad», ha detto Page al biografo Brad Tolinski. «Quindi ho pensato: “Gli scriverò una ballata”, ed ecco Rain Song. In realtà ho addirittura citato Something, i primi due accordi sono gli stessi». Per Plant il brano è il simbolo degli aspetti più eterei del suo rapporto con Page, ed è una delle canzoni a cui è più affezionato. «Sapevo che per cantare al meglio non dovevo ripetermi. E quei falsetti erano diventati un po’ il mio biglietto da visita».

Eddie Kramer ha curato il suono del disco, nonostante una litigata sulla cucina indiana

Nonostante Page fosse il produttore di tutti gli album della band, il sound degli Zeppelin è frutto della collaborazione con Eddie Kramer, un vero virtuoso della sala d’incisione. Il rapporto, però, si era incrinato dopo Led Zeppelin III. «Era sempre una battaglia, si presentavano in studio con un atteggiamento borioso», ha detto Kramer nel 2003. La questione si è fatta grave quando la band ha distrutto Electric Lady, gli studios di New York che Kramer aveva progettato con Jimi Hendrix. «Avevano rovesciato un po’ di cibo indiano sul pavimento. Lo studio era nuovo e ci tenevo molto, quindi ho chiesto ai roadie di pulire. Loro si sono incazzati e non ci siamo parlati per quasi un anno». Kramer non ha partecipato a Led Zeppelin IV, ma la collaborazione è ripartita con il disco successivo. «Mi hanno chiamato come se non fosse successo nulla», ha detto Kramer.

Parte dell’album è stato registrato a casa di Mick Jagger

Dopo il 1970 gli Zeppelin hanno sempre cercato di evitare lo studio di registrazione, cercando di incidere in location particolari. L’idea era di fare come la Band, che faceva tutto in una comune a Woodstock, vicino New York. «Non sapevo come avessero registrato Music from Big Pink, ma girava voce che avessero fatto tutto in una casa di campagna», ha detto Page a Guitar World. «L’idea mi sembrava bella, volevo capire cosa sarebbe successo se avessimo vissuto insieme durante le registrazioni». Nella primavera del ’72, quindi, la band si èt rasferita a Stargroves, la casa di campagna di Mick Jagger dove gli Stones hanno registrato alcune tracce di Exile on Main Street e Sticky Fingers. «La casa aveva un suono meraviglioso, c’erano diverse possibilità acustiche, bastava cambiare stanza», ha detto Kramer. «Abbiamo messo l’amplificatore di Jimmy nel camino e cose del genere… potevamo cambiare suono senza spostarci di un metro». Certo, il disco è stato concluso in studio, ma le tracce registrate a Stargroves sono il simbolo della creatività libera di quel periodo.

Il titolo ‘D’Yer Mak’er’ è uno scherzo

Non ci sono pezzi degli Zeppelin più divisivi di questa bomba reggae. Si litiga anche sulla pronuncia del titolo, per moltissimi Dear Maker, una specie di citazione biblica. In realtà il titolo viene da un gioco di parole che ha senso solo con accento Cockney: “My wife’s gone to the West Indies” / “D’you make her?” / “No, she went of her own accord”. Il brano è stato scritto dopo la registrazione dell’opener: «Avevamo appena chiuso The Song Remains the Same, erano le 5 di mattina e avevamo bisogno di qualcosa di più leggero». L’idea era di mescolare il reggae con il melodramma pop anni ’60, ma la batteria di Bonham ha trasformato il brano in qualcosa di totalmente inedito. «A John piaceva tutto meno il jazz e il reggae. Odiava suonare il reggae, e in D’yer Mak’er ha suonato lo stesso ritmo senza mai cambiare», ha detto Jones. Tuttavia, Plant era talmente entusiasta che il brano è uscito come singolo nel 1973. «Pensavo che i fan avrebbero capito. Mi sembrava un brano ovvio…».

‘The Crunge’ è una parodia di James Brown

Questo divertissement funky è, insieme a D’yer Ma’ker, un brano molto discusso tra i fan. Sono due canzoni dalla genesi analoga: entrambe sono nate dopo un’improvvisazione in studio, e portate in una direzione diversa da Bonham. «Bonzo proponeva sempre cose strane durante la scrittura, oppure mentre improvvisavamo», ha detto Jones. «Aveva sempre in testa riff strani, insoliti o interessanti. The Crunge è nata così». In questo caso Bonzo suona un ritmo in 9/8. «Quel mezzo quarto in più è geniale, geniale», dice Page, che sul ritmo ha inserito un riff che si portava dietro dal 1970. «Ho suonato una Stratocaster, volevo un suono alla James Brown». E la stessa cosa ha pensato Plant, che ha omaggiato il Padrino del Soul nella sua parte vocale. «Amo tutti gli ammiccamenti a James Brown che fa Robert su quel pezzo», ha detto Kramer. La band ha suonato una versione speciale nel ’75, mischiandola con una cover di Sex Machine.

‘La foto di copertina è frutto di 10 giorni di scatti a due gemelli

La cover di Houses of the Holy ritrae un’orda di bambini che scalano una serie di rocce geometriche: uno scatto sovrannaturale e fantascientifico allo stesso tempo. Ispirato a Childhood’s End di Arthur C. Clarke, lo scatto è opera dello studio Hipgnosis. «Un giorno ho risposto al telefono e dall’altra parte c’era Jimmy Page», ha detto Audrey Powell. «Non voleva dirmi il titolo dell’album, o farmi ascoltare la musica. Mi ha solo detto: “Vediamoci tra un paio di settimane, proponete delle idee. Sapete che cosa suoniamo”». Dopo alcune proposte finite male – compresa una litigata con Storm Thorgerson -, la band ha scelto il concept dei bambini e delle montagne. Protagonisti della cover due gemelli – Samantha e Stefan Gates. «Quelli sono i miei veri capelli. Eravamo solo io e mia sorella, è stato molto divertente, eravamo a nostro agio», ha detto Stefan. Samantha, invece, non ha ricordi granché positivi: «Ricordo tutto alla perfezione, faceva un freddo d’inferno e pioveva di continuo. Non credo che oggi sarebbe possibile fare una cosa del genere con dei bambini». La pioggia, inoltre, creò diversi problemi anche a Powell. «Volevo fare un collage in bianco e nero, ma con quel tempo i colori erano tutti desaturati, quindi ho dipinto tutto a mano», ha detto. Il processo ha richiesto due mesi di lavoro, e persino l’uscita del disco è stata rimandata. Il prodotto finale è stato presentato alla band dopo un concerto, nel retro di una macchina. «C’erano 200 persone attorno alla foto, e alla fine hanno fatto un grande applauso. È stato surreale», ha detto Powell.

La title track è stata eliminata all’ultimo momento

Al contrario di quanto successo con gli album precedenti, la quinta fatica degli Zeppelin non ha un titolo di numeri romani. Houses of the Holy, in realtà, era una composizione di Page, dedicata a luoghi “sacri” e “profani”. «Si tratta di “case dello Spirito Santo”, in un certo senso», ha detto nel 2014. Il brano è stato scartato all’ultimo momento, secondo la band somigliava troppo a Dancing Days. Come sapete tutti, Houses of the Holy è stata poi inserita nel doppio Physical Graffiti.

Durante il tour la band si muoveva sulla Starship, il loro jet privato

Il tour nordamericano del ’73 ha battuto tutti i record, compreso quello del leggendario concerto dei Beatles allo Shea Stadium. I re del rock, quindi, avevano bisogno di un mezzo degno del loro nome: un aereo privato. Gli Zeppelin, però, non amavano viaggiare in aereo, e quando una turbolenza ha rovinato la trasferta del penultimo show della prima leg del tour, hanno deciso di cambiare mezzo, e senza badare a spese. Così nasce The Starship, che è stato definito come «Un cazzo di gin palace volante», e che conteneva: un divano lungo quanto l’aereo, un organo elettrico, un televisore gigante con una collezione di cassette invidiabile, e una “suite imperiale” con materasso ad acqua. Il costo? 30Mila dollari al mese, più 2,5mila a volo.

Rolling Stone stroncò l’album

La critica dell’epoca non fu gentile con Houses of the Holy, un disco inizialmente considerato come troppo sperimentale rispetto alla discografia passata. Una delle recensioni peggiori arrivò proprio da Rolling: «Houses of the Holy è uno degli album più confusionari che ho ascoltato quest’anno», dichiarò Gordon Fletcher, «The Crunge e D’yer Mak’er sono le peggiori composizioni mai registrate dal gruppo». Quarant’anni dopo Kory Grow ha fondamentalmente ritrattato la posizione del giornale: «Inserito nel contesto della discografia degli Zeppelin, Houses of the Holy mostra una band che non vedeva l’ora di cambiare e sperimentare».

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