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La voglia di normalità di Achille Lauro

Nel suo ultimo album ‘Pour l'amour’ il rapper si mette a nudo come mai ci saremmo aspettati
Achille Lauro. Foto di Vincenzo Schioppa per Converse

Achille Lauro. Foto di Vincenzo Schioppa per Converse

Basta davvero un ascolto (o persino uno sguardo, per i più pigri) per farsi un’idea di che tipo sia Achille Lauro: i vestiti da donna sfarzosi e stravaganti, l’ambiguità, le sonorità da rave, il flow svogliato, la voce sguaiata, l’attitudine “di rottura” e l’atteggiamento provocatorio; Achille vuole tutti gli occhi su di sé, e per questo preme l’acceleratore in ogni aspetto della sua arte. In linea di massima, ciò si riassume in un unico credo, che consiste nel rifiuto totale dell’ordinario, del “normale”.

L’ultimo album, Pour l’amour, realizzato col solito Boss Doms alle produzioni e di cui abbiamo già ampiamente parlato da queste parti, è semplicemente l’espressione più violenta di quest’estetica: un’opera coraggiosa a 360 gradi, integralista nella sua fuga compulsiva da qualsiasi etichetta, che prima si smarca da facili legami con la trap e poi si abbandona a esperimenti ancor più esondanti. Un lungo delirio, articolato fra suoni acidi, echi sintetici, ritmiche asfissianti e casse in 4/4, in una sorta di rituale orgiastico da moderno baccanale, nel segno di una prevaricazione edonistica in cui ogni definizione abdica a favore di una sperimentazione allucinata e selvaggia, sensuale e lisergica. A volte, la rotta è così audace da sfiorare persino il ridicolo, l’indecifrabile, ma a loro questo non interessa: fa tutto parte dell’eccesso, e ben venga quindi. Questo è Pour l’amour, o perlomeno questo è Pour l’amour prima del brano che lo chiude, Penelope.

Diciamolo subito: Penelope fa parte di quella cerchia di canzoni che trovano legittimazione nell’ecosistema dell’album che le contiene, nel contesto che le definisce – leggi: quelle intro così programmatiche da racchiudere il senso di un lavoro intero, o quei finali che da soli raddrizzano dischi opachi. Nel caso del pezzo firmato Lauro e Doms ci riferiamo proprio a una super-conclusione, per quanto (e, anzi, soprattutto) anomala, straniante e a primo impatto avulsa dal resto. Se Pour l’amour è infatti un lungo baccanale, allucinato in ogni aspetto, il suo finale smorza i toni, costituendo l’unico intermezzo di vaga, paradossale lucidità del trip, se non proprio l’hangover subito successivo.

Già perché, mentre per 13 tracce è tutto cassa dritta e distruzione della forma-canzone, Penelope si colloca agli antipodi, quasi come realtà a sé stante, ritrovando la tradizione in una ballata classica per liriche, arrangiamenti e struttura, che nulla avrebbe di straordinario se non fosse il finale di un’opera così esagerata e diversa. Ed è proprio qui la sua forza: una volta staccata la spina, tutto si fa asciutto, più minimale, “ordinario” se vogliamo; i suoni acidi scompaiono, le ritmiche diventano meno ossessive e la voce tonica, meno svogliata, mentre un pianoforte da ballad classica si prende presto la scena. Di fatto, in un disco tanto sopra le righe, Penelope è l’unico pezzo tradizionale, essenzialmente melodico. L’unico pezzo “normale”.

Da qui, l’idea prosegue poi alla scoperta dell’apparato emotivo di Pour l’amour, con liriche che in tre-versi-tre smontano tutto il marcio, il non-detto dietro l’estetica dell’album: “‘sto bene’ è la bugia che dico più spesso / come ‘i soldi ci fanno felici’ / o come ‘senza soldi si può essere ricchi'” canta Achille, e in un attimo si ritrova perso in un limbo di languore in cui non basta più niente, nulla ha più senso e non c’è niente in cui credere. Né i soldi, né le droghe, né l’autodistruzione. A cosa aggrapparsi? Alla soluzione apparentemente più scontata, suggerisce lui: all’amore – perché insomma, se proprio c’è da ritrovare la tradizione è giusto che il tema cardine sia questo. L’amore come via d’uscita, quindi, come esperienza quotidiana, semplice e “normale”, alternativa granitica a una vita di eccessi. Certo, potrebbe essere una risposta banale, la sua, ma capirete che, in un album come Pour l’amour, non lo è affatto.

Così, pur mantenendosi ancora confuso e poco lucido, lo sguardo si fa più intimistico, a nervi scoperti, emotivo e malinconico. Achille è nudo, è se stesso come sempre, ma stavolta racconta di una relazione che vorrebbe fosse la sua ancora di salvezza e che invece è monca, sbiadita, complice di tutti i vuoti. Una storia che parte da “anni sotto le coperte”, e che dunque riscopre un’intimità nuova, ordinaria, fragile, in cui “amare poi non è scopare”, e che poi decolla in un ritornello che invece è un languore continuo, con un “insegnami com’è” che gira come un mantra. “Insegnami com’è” a dire “addio e non voltarsi”; ma anche a essere normale, felice come gli altri, pare supplicare la sua voce. E invece no: le incomprensioni, le mancanze, i vuoti, l’età che avanza e rende più cinici (“il cuore diventa piccolo più noi cresciamo”); una soluzione non c’è, una via d’uscita neanche. Resta Lauro, in piedi col suo dolore, dopo una festa sfrenata fatta per dimenticare e che è finita invece senza aver mantenuto le sue promesse, lasciandolo solo in un angolo, come sempre.

È una conclusione parossistica, Penelope, un canto d’amore scoccato nel momento più inaspettato, ma è anche emotivamente satura, sincera nel suo ricercare la “normalità” in maniera quasi ossessiva, segnata dal desiderio di una felicità vera, del completamento tramite l’altro. Sarebbe potuta essere una ballata qualsiasi, e invece è l’occasione perfetta per capovolgere la prospettiva di Pour l’amour, mostrando il cuore vivo, nudo e pulsante, prima sotteso e nascosto dal baccanale. E va bene così, altroché.

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