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La messa nera di Nick Cave e il viaggio tecnologico di Bjork: è iniziato il Primavera Sound

Un doppio concerto per due anime diverse, complementari, in mezzo a un sacco di nomi interessanti
Nick Cave sul palco del Primavera Sound. Foto: Eric Pamies

Nick Cave sul palco del Primavera Sound. Foto: Eric Pamies

Primo giorno del Primavera Sound. Il momento poetico arriva come sempre al tramonto. Quando la luce diventa morbida, sotto alla scritta luminosa che rivendica con orgoglio “Created in Barcelona”, il festival dei festival regala la prima emozione con una band al femminile, le americane Warpaint. È lo stesso palco affacciato sul mare in cui qualche edizione fa, alla stessa ora, Patti Smith ha messo le cose in chiaro gridando in faccia a questa generazione il senso della sua missione rock, e in cui Brian Wilson ha incantato con cascate di melodie cristalline. Ci stanno bene le Warpaint (che sono state definite “un canto di sirene insonni”) e il loro galleggiare malinconico e sexy in uno spazio indefinito tra bellezza e inquietudine. Mettono insieme pattern elettronici e chitarre in un flusso magnetico che gira intorno alla cantante Emily Kokal, ex di John Frusciante e di cui Heath Ledger era un grande fan. Bella storia quella delle Warpaint: Emily ha conosciuto la bassista Jenny Lee Lindbergh ad un casting per una pubblicità a Los Angeles, ma quando l’ha incontrata ha detto: «Ecco una persona vera». Poi è arrivato Frusciante che ha prodotto il loro primo EP Exquisite Corps (che è arrivato al n.1 della classifica di Amoeba Music, una specie di investitura indie) e gli ha insegnato: «Il senso dell’innocenza» come ha detto Emily, «Quello di chi lavora in una pizzeria e fa musica perché la ama».

È interessante che il Primavera sia iniziato così. È evidente quanto la line-up sia stata studiata per creare un percorso. Prima delle Warpaint c’è stato il minimalismo surf-pop-punk delle giovanissime spagnole Hinds, il glam distorto di Ezra Furman, con più interpretazione del personaggio che qualità (vorrebbe essere Jonathan Richman dei Modern Lovers ma non lo è ancora), il suono perennemente dark dei Twilight Sad scelti da Robert Smith come supporto dei Cure nel tour del 2016.
Poi è arrivato il primo tocco di realtà con il rock soul di Vagabon, ovvero Letizia Tamko, multistrumentista autodidatta del Camerun trapiantata a New York, coraggiosamente sul palco al pomeriggio con canzoni grezze e intense, per ridare un significato all’estetica indie e strapparla dalle categorie social.

Il Primavera Sound è sempre più grande è sempre più vario, sempre più un evento mediatico e vetrina di stile a prescindere dalla musica, come il Coachella in California. La maggior parte dei ragazzi più giovani sono qui per il Primavera, non per le band. Per questo chi riesce ad entrare nelle loro Instagram stories, spezzare l’algoritmo della condivisione e della soddisfazione istantanea e fargli alzare la testa verso il palco diventa importante. Per questo si parte con il doppio concerto dei due nomi più forti, Bjork e Nick Cave con i Bad Seeds (dalla seconda giornata sono più o meno tutti sullo stesso livello, dipende solo dall’attesa del pubblico), che il Primavera si gioca subito sui due palchi gemelli Seat e Mango piazzati uno di fronte all’altro.

Bjork. Foto: Santiago Felipe

Due visioni contrapposte e complementari della musica e della sua esecuzione dal vivo, che puntano dritto al cuore in modo diverso. Bjork usa la tecnologia per tornare agli elementi di base e parlare della natura, Nick Cave parte dal reale, è viscerale nel racconto e straziante nell’interpretazione e cerca la trascendenza. Comunque la si guardi è un’utopia. È anche la stessa idea di rappresentazione, di musica come idea scenografica e teatrale. Bjork è l’artista evanescente che si allontana dal reale in una dissolvenza elettronica, è una trasfigurazione digitale che vuole comunicare (lo show si apre con un video che riporta il messaggio del suo ultimo album, Utopia del 2017: “Per sopravvivere come specie dobbiamo definire la nostra utopia. Immaginate un futuro”), porta sul palco flauti e arpe, fiori che sbocciano, una foresta che si muove a tempo con le sue armonie vocali e le sue vibrazioni di suoni algidi sempre discordanti e in controtempo (anche se quando lascia partire i bassi su Isobel è una meraviglia).Nick Cave viene dal buio, è solenne e antico, basa tutto sulla fisicità della sua presenza e il rapporto viscerale con il pubblico che per lui arriva solo alla prime file, quelle in cui ci sono le persone che può toccare.

Inquieta e consola con il magnetismo delle canzoni (non esiste un momento più bello della melodia di The Ship Song o della catarsi di Jubilee Street) crea una liturgia della band rock che scava fuori le emozioni dagli strumenti, è ancorato alle canzoni, aggrappato al violino distrutto di quel Rasputin impazzito di Warren Ellis e alla gravità dei Bad Seeds come se fosse l’unica via di salvezza, perché come canta in Loverman: «C’è un diavolo che aspetta fuori dalla tua porta». Dopo Bjork e Nick Cave c’è l’evasione dei Cvurches, la sperimentazione di Nils Frahm, l’hip-hop senza limiti di Vince Staples e tanta elettronica con i dj set di Floating Point, Four Tet e Dj Koze, ma il senso della prima giornata del Primavera è tutto nella doppia messa in scena dei due nomi principali.

Per riportare l’attenzione sulla musica dal vivo come esperienza emotiva ci volevano il viaggio tecnologico di Bjork e la messa nera di Nick Cave. Ci si aspettavano delle lacrime da Nick Cave, considerando la disperazione che si porta dentro. Ma ha appena fatto un tour in America in cui oltre a suonare canzoni al piano è rimasto seduto su un sgabello sul palco a rispondere a tutte le domande del pubblico (si chiamava “So, what do you want to know?”) e quindi ora vuole solo immergersi nella musica. E alla fine le lacrime sono tutte sui volti delle persone che tira su dalle prime file e accompagna per mano sul palco, per cantare insieme il coro oscuro di Push the Sky Away: «Qualcuno dice che è solo rock’n’roll, ma ti entra dentro nell’anima»

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