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La classifica dei 100 chitarristi migliori di sempre (20-1)

Un'altra tappa del nostro viaggio fra le cento chitarre che hanno segnato per sempre la storia del rock. Questa settimana, l'ultima puntata, con le posizioni dalla 20 alla 1
Jimmy Page dei Led Zeppelin. Foto di Robert Knight Archive/Redferns

Jimmy Page dei Led Zeppelin. Foto di Robert Knight Archive/Redferns

Abbiamo messo insieme i migliori chitarristi ed esperti del settore per stilare la classifica delle glorie delle sei corde, e per spiegarci cosa separa le leggende da tutti gli altri. Commenti di: Keith Richards su Chuck Berry, Carlos Santana su Jerry Garcia, Tom Petty su George Harrison e molti altri.

20. Carlos Santana
Il Messicano Carlos Santana aveva appena finito il Liceo a San Francisco, nel 1965, quando la scena musicale della città è esplosa, facendolo venire a conoscenza di un gran numero di rivelazioni –electric blues, ritmi africani e jazz moderno; maestri della chitarra come Jerry Garcia e Peter Green dei Fleetwood Mac – diventati elementi chiave nei ritmi psichedelici latino–americani dell’omonima band. Il tono cristallino e potenza pulita di Santana, fanno di lui l’unico strumentista riconoscibile tramite una sola nota.
Per quanto riguarda il suo stile audace ed esplorativo, Santana ne ha in parte dato il merito al consumo di acidi. Santana ha detto: «Non puoi prendere dell’LSD e non trovare la tua voce, perché non hai nessun posto dove poterti nascondere. Non suonerà né finta né carina». La forza accogliente della musica di Santana fa di lui un perfetto collaboratore –il suo album del 1999 carico di grandi nomi, Supernatural, ha vinto 9 Grammy– e una costante fonte d’ ispirazione. Prince l’ha definito più influente di Jimi Hendrix: «Santana suonava con più grazia».

19. James Burton
Lo stile caratteristico di James Burton, definito “chicken pickin” per le tonalità chiare, croccanti e concise, è uno dei suoni più unici della musica country, e ha esercitato un’enorme influenza sulla chitarra rock. Burton ha iniziato a 14 anni, quando ha scritto “Susie Q” per Dale Hawkins, ed è diventato una star adolescente quando si è unito alla band di Ricky Nelson nel 1957.
Con Nelson, Burton ha creato la sua tecnica distintiva: usava sia pizzicate e plettro, e sulla sua Telecaster aveva montato delle corde di banjo al posto delle quattro corde più acute, rendendo la chitarra scoppiettante e scattosa. «Non ho mai comprato un disco di Ricky Nelson, ma ho comprato un disco di James Burton», ha affermato Keith Richards.
Nei tardi anni ’60 e nei ’70, Burton ha riunito la band TCB di Elvis ed è diventato il ragazzo d’oro di dischi country come quelli di Joni Mitchell e Gram Parsons, ed è tuttora in tour.
Joe Walsh ha detto: «Era un tipo misterioso: “Chi è questo tizio e perché suona in tutti quei dischi che mi piacciono?” La sua tecnica è stata importantissima».

18. Les Paul
Les Paul è conosciutissimo per essere il genio che ha inventato la chitarra a corpo rigido che porta il suo nome. Ma è stato anche un musicista geniale. «Ha creato i suoni di chitarra migliori degli anni ’50. Nessuno c’è mai andato vicino», ha dichiarato Brian Wilson.
Una lunga sfilza di successi negli anni ’40 e ’50 (sia da solista che con sua moglie, la cantautrice Mary Ford) hanno stabilito il suo stile distintivo: improvvisazioni eleganti, dai toni puliti e dalle pizzicate veloci sui brani popolari dell’epoca. Paul ha creato una serie di innovazioni tecniche sconvolgenti, ad esempio la sovra incisione di più tracce in studio o la registrazione su nastri a diverse velocità, creando dei suoni a cui nessuno era ancora arrivato – ne è dimostrazione il suo assolo in “Lover” del 1948, in cui la chitarra ha il suono di uno sciame di vespe. Fino a poco prima della sua morte nel 2009, all’età di 94 anni, Paul faceva ancora concerti settimanali ad un jazz club di New York, sempre pieno di metallari adoranti fra il pubblico.

17. Neil Young
«Se dovessi mai insegnare in una classe di giovani chitarristi, la prima cosa che gli farei suonare sarebbe il primo minuto dell’assolo originale di Neil Young in “Down by the River”. È soltanto una nota, ma è davvero melodico e ringhiante di rabbia e attitudine. Il modo di suonare di Neil è come un tubo aperto che va dal suo cuore dritto al pubblico. Negli anni ’90 abbiamo suonato in un festival con i Crazy Horse. Alla fine di “Like a Hurricane”, Neil ha iniziato un assolo dagli echi così forti che sembrava fosse un dipinto impressionista. Cantava a quasi due metri dal microfono, e lo potevi sentire in mezzo ai suoni turbolenti e tempestosi. Penso molto a quel momento mentre suono. I concetti tradizionali del ritmo e delle scale sono rispettabili, ma la musica è un oceano enorme. È qualcosa di immenso, furioso, e ci sono molti canali inesplorati. Neil è ancora la luce che illumina il cammino di persone che sono più giovani di lui, ricordandoci che si possono rompere le convenzioni artistiche.» Di Trey Anastasio.

16. Derek Trucks
Letteralmente cresciuto nella famiglia degli Allman Brothers, Derek Trucks –il nipote del batterista degli Allmans, Butch Trucks– ha iniziato a suonare la chitarra a 9 anni ed è andato in tour a 12. Ma la precocità di Trucks si è aggiunta ad una voglia istintiva di esplorare. Quando ha preso il posto di Duane Allman nell’ Allman Brothers Band, a 20 anni, l’abilità nell’assolo di Trucks è esplosa verso direzioni stravolgenti, riuscendo ad incorporare elementi del Delta blues, hard-bop jazz, l’estasi vocale del gospel Southern black e le modalità e i ritmi dell’Indian-raga.
«Ha molti più suoni di quanti ne abbia io», ha dichiarato John Mayer in completa ammirazione. Oltre che andare in tour regolarmente con gli Allman Brothers, Trucks al momento è alla guida della Tedeschi Trucks Band, un agglomerato bestiale di 11 musicisti creato insieme a sua moglie, la cantante e chitarrista Susan Tedeschi. Eric Clapton, che ha portato Trucks in tour come spalla nel 2006 ha dichiarato: «è come un pozzo senza fondo. La sua musica è davvero profonda».

15. Freddy King
In un’intervista del 1985, Eric Clapton ha citato la B-side di Freddy King del 1961 “I Love the Woman”, definendola «la prima volta in cui ho sentito quello stile di chitarra elettrica che mi ha iniziato alla chitarra: il bending». Clapton ha condiviso il suo amore per King con altre leggende della chitarra inglesi come Peter Green, Jeff Beck e Mick Taylor, allo stesso modo influenzati dai toni vibranti e diretti di King e dai fraseggi bruschi e melodici in pezzi iconici come “The Stumble”, “I’m Tore Down” e “Someday, After Awhile”. Soprannominato “cannone texano”, King aveva una potenza chitarristica unica.
A proposito delle pizzicate a mo’ di banjo di King, Derek Trucks ha affermato: «Quel suono metallico è indimenticabile, ma deve stare nelle giuste mani. King suonava davvero troppo bene, potevi sentire chiaramente la sua chitarra». Trucks è sicuro dell’impatto di King su Clapton, affermando recentemente:« Quando ho suonato con Eric, erano molte le volte in cui i suoi assoli mi davano l’impressione di ascoltare Freddy».

14. David Gilmour
Come produttore e scrittore, David Gilmour dei Pink Floyd è attratto da atmosfere sognanti e fluttuanti, ma quando prende la Stratocaster nera per suonare un assolo, c’è una sensibilità diversa. «Volevo un suono di chitarra chiaro e potente che potesse lacerarti la faccia», ha affermato il chitarrista.
Gilmour è stato un solista blues in un gruppo che suonava raramente blues – i suoi assoli eleganti e instancabilmente melodici risuonavano come sveglie in Dark Side of the Moon. Ma Gilmour è stato anche un adepto dell’improvvisazione d’avanguardia, come si nota nel Live at Pompeii dei Pink Floyd, e poteva essere un chitarrista inaspettatamente funky, come dimostrano i riff sinuosi di “Have a Cigar” e “Another Brick in the Wall, Part 2”. Il suo uso pioneristico dell’eco e di altri effetti –inizialmente inspirato dal primo chitarrista dei Floyd, Syd Barrett– è culminato nell’uso preciso del delay in “Run Like Hell”, che anticipa il suono di The Edge.

13. Albert King
Quando nel 1968 il reporter di Rolling Stone Jon Landau ha chiesto ad Albert King quali fossero le sue influenze chitarristiche, King ha risposto: «Nessuno. Tutto quello che faccio è sbagliato». Pioniere del blues elettrico, King –che era mancino– suonava una Gibson Flying V del 1959 al contrario, cioè con le corde basse verso il pavimento, perché aveva il manico a destra. King aveva un’accordatura indecifrabile e batteva le corde con il pollice. King, 1 metro e 90 di statura e 136 kg di peso, riusciva a flettere le corde più che chiunque altro, e i suoi album hanno influenzato un’intera generazione: Eric Clapton ha ripreso l’assolo in “Strange Brew” di King e Duane Allman ha trasformato la melodia di “As the Years Go Passing By” nel riff principale di “Layla”. Jimi Hendrix è caduto dal cielo quando il suo eroe ha aperto il suo concerto a Fillmore nel 1967. King ha dichiarato: «Ho insegnato a Hendrix una grande lezione sul blues. Io potevo tranquillamente suonare i suoi pezzi, ma lui non poteva suonare i miei».

12. Stevie Ray Vaughan
Nei primi anni’80, MTV stava nascendo, e la chitarra blues era lontana anni luce dalla musica mainstream. Nonostante questo, Stevie Ray Vaughan, nato in Texas, ha catturato l’attenzione di tutti. Il musicista ha assorbito gli stili di tutti i chitarristi blues –con un tocco di jazz e rockabilly alla Jimi Hendrix– e il suo suono mostruoso, un miscuglio di virtuosismi e senso impeccabile del ritmo, riusciva a dare la potenza del metal a riff blues, ad esempio in “Pride and Joy”. Vaughan era considerato alla pari di B.B. King e Eric Clapton, e nonostante la sua morte nel 1990 a causa di un incidente in elicottero, è tuttora fonte di ispirazione per molte generazioni di chitarristi; da Mike McCready dei Pearl Jam e John Mayer, al giovane astro nascente Gary Clark Jr. «Stevie è stato uno dei motivi per cui ho voluto una Stratocaster; il suo tono, che non sono mai riuscito ad avere, era enorme, compatto e chiaro allo stesso tempo. Se ascolti i suoi album e guardi i suoi video, ti rendi conto di come la sua passione fosse percepibile, quasi schiacciante», ha dichiarato Clark.

11. George Harrison
Una volta io e George Harrison eravamo in macchina e “You Can’t Do That” dei Beatles passò alla radio, con quel riff bellissimo a 12 corde all’inizio del pezzo. Lui mi fa: «Me lo sono inventato al volo». Ed io: «Ma dai, come?». – Mi risponde: «Ero lì, e dovevo fare qualcosa!».
Questo riassume più o meno chi era George Harrison. Cercava il modo giusto per far filare il brano. Quella era la magia dei Beatles, sembrava che stessero cercando il modo giusto di suonare.
George conosceva tutti gli assoli oscuri di Elvis; le sue influenze iniziali erano quelle del rockabilly –Carl Perkins, Eddie Cochran, Chet Atkins, Scotty Moore, ad esempio– ma ci aggiungeva sempre qualcosa in più. Mi ricordo che andavo in estasi sull’assolo di “I Saw Her Standing There”, era perfetto in quel pezzo, era il trucco di George.
E poi, quante Rickenbacker a 12 corde ha venduto? Il suo era un suono completamente nuovo –Roger McGuinn ha preso ispirazione da George, e poi l’ha portata nei Byrds.
Quando poi si è approcciato alla chitarra slide negli ultimi tempi dei Beatles, era davvero bello sentirlo in quella versione. Una volta mi ha detto: «Credo che i chitarristi di oggi si siano dimenticati della tonalità», e appunto quella era una cosa che gli stava a cuore. Era perfettamente accordato quando suonava, gli slide erano precisi e il vibrato era bellissimo. La sua chitarra cantava per lui. Tutti i suoi dischi sono perfetti, geniali. Era un grande uomo che ha inventato tanto. Di Tom Petty.

10. Pete Townshend
Pete Townshend non suona tanti assoli, che potrebbe essere il motivo per cui molte persone non capiscono quanto sia bravo. Ma Pete è importantissimo per il rock –è un musicista visionario che ha innescato un intero genere. La sua tecnica ritmica è estremamente eccitante e aggressiva; è un musicista selvaggio in un certo senso. Il suo suono è fisico, fluido, magnifico e il suo stile tecnico rispecchia l’intensità lo caratterizza come persona. È un po’ come il fondatore del punk, forse il primo a distruggere una chitarra sul palco –uno statement fenomenale per l’epoca. Allo stesso tempo Pete è complesso e colto, ascolta molto jazz e mi ha confidato che gli piacerebbe tanto poterlo suonare. In “Substitute” senti tutta l’influenza delle scale modali di Miles Davis, ad esempio nella progressione di accordi con la corda del Re lasciata libera. Ha usato il delay e il feedback molto presto, cosa che credo abbia influenzato l’avanguardia musicale europea, ad esempio gli Stockhausen –che erano una roba da scuola d’arte. Gli accordi squillanti che suonava negli Who erano molto intelligenti se consideriamo come la batteria e il basso fossero predominanti nelle composizioni della band –poteva essere tutto molto confusionario se non ci fosse stato lui. Pete ha più o meno inventato i power chord, e anche lo stile alla Zeppelin che c’è nei Who degli anni ’60. Molte di queste cose vengono da lui. Di Andy Summers

9. Duane Allman
Sono cresciuto suonando la chitarra slide in chiesa, e l’idea era quella di imitare la voce umana: dopo che la signora anziana o il parroco smettevano di cantare, noi dovevamo continuare la melodia della canzone come se stessero ancora cantando. Prorpio così Duane Allman ha portato il tutto a un altro livello. Era molto più preciso di chiunque fosse venuto prima. La prima volta che ho ascoltato gli Allman Brothers fu strano per me, perché quel suono era molto simile a quello con cui ero cresciuto.
Ad esempio la parte finale in “Layla”. Duane suona slide su tutta la melodia. Mettevo quel pezzo in repeat per addormentarmi. Anche se tutti noi chitarristi siamo sempre li ad esercitarsi, ci sono dei dischi che ti fanno mettere via la chitarra per ascoltarli.
Eric Clapton mi ha detto che sapeva quanto Duane potesse cambiare il suono della chitarra e farlo diventare qualcosa di nuovo. Clapton dice che era molto agitato quando le chitarre erano due, ma con Duane non era così.
Duane è morto giovane. Puoi dire che sarebbe diventato 50 volte più bravo, ma Dio ha voluto così, e ci ha lasciato la sua eredità. Nel mio iPod c’è tutto quello che Duane abbia mai registrato. Ascolto i pezzi degli Allman tutti i giorni. Di Robert Randolph

8. Eddie Van Halen
Quando avevo 11 anni ero a casa del mio insegnante di chitarra, e lui mi fece ascoltare “Eruption”. Sembrava che venisse da un altro pianeta. Io stavo imparando le basi, cose tipo AC/DC e Deep Purple. “Eruption” per me non aveva senso, ma era glorioso, tipo quando ascolti Mozart per la prima volta.
Eddie è il maestro dei riff: ad esempio “Unchained”, “Take Your Whiskey Home”, l’inizio di “Ain’t Talking ‘Bout Love”. Trovava suoni che non erano necessariamente simili a quelli della chitarra tradizionale –molte armonie e dinamiche succedevano solo grazie alla sua tecnica brillante. C’è una parte in “Unchained” in cui sembra che ci sia un altro strumento nel riff.
Molto del suo suono viene dalle sue mani, ad esempio per il modo in cui regge il plettro con il pollice e il medio, che rende possibile il tapping con le altre dita. (Quando ho scoperto come suonava, c’ho provato ma era troppo strano). Ma a parte questo, Eddie ha un’anima incredibile. È come Hendrix –puoi suonare le cose che ha scritto, ma ci sarà sempre un qualcosa che manca.
Eddie spacca ancora. Ho visto i Van Halen durante il loro tour di reunion due anni fa e il momento in cui è uscito sul palco ho sentito le stesse vibrazioni di quando ero ragazzino. Quando vedi un maestro, lo riconosci subito. Di Mike McCready dei Pearl Jam

7. Chuck Berry
Quando da ragazzino ho visto Chuck Berry in “Jazz on a Summer’s Day” quello che mi ha scioccato è stato il suo suono duro rispetto ai tipi che suonavano jazz. Erano tutti bravissimi, tipo Jo Jones alla batteria e Jack Teagarden al trombone, ma avevano quell’attitudine jazz alla “ah si… questo è rock&roll quindi…”. Con “Sweet Little Sixteen”, Chuck li ha sommersi con una tempesta di suono. Per me, quello è il blues. Quell’attitudine che io stesso volevo avere, eccetto il fatto che ero bianco.
Ho ascoltato e copiato qualunque giro lui abbia mai suonato. Chuck li ha presi da T-Bone Walker e io li ho presi da lui, Muddy Waters, Elmore James e B.B. King. Siamo tutti parte di quella famiglia che esiste da mille anni. Sul serio, ce lo stiamo passando di mano in mano.
Chuck suonava una versione più infiammata del Chicago blues con accenni boogie –che tutti i musicisti a quel tempo suonavano– ma lui l’ha portato ad un altro livello. Era leggermente più giovane dei musicisti blues dell’epoca e le sue canzoni erano più commerciali, ma senza essere pop, che è molto difficile. Chuck aveva lo swing, il rock e il roll. E aveva anche una band straordinaria nei primi dischi: Willie Dixon al basso, Johnnie Johnson al piano, Ebby Hardy o Freddy Below alla batteria. Avevano tutti capito cosa dovevano fare e si divertivano a farlo. Non c’è un modo migliore. Non è la persona più tranquilla del mondo, cosa che è stata sempre una delusione per me, perché i suoi pezzi erano pieni di senso dell’umorismo brillante. Il vecchio figlio di puttana ha appena compiuto 85 anni. Gli faccio i miei più cari auguri e vorrei incontrarlo e dirgli: «Hey Chuck , beviamoci qualcosa», ma lui non è il tipo. Di Keith Richards

6. B.B. King
Le influenze di B.B. si sono formate molto presto. Essendo nato ad Indianola in Mississippi, B.B. riesce a ricordare il suono delle balle di fieno e delle figure monumentali del blues come Charley Patton e Robert Johnson. Il fraseggio monotòno di T-Bone Walker è stato tutto per lui. Riesci a sentire quelle influenze nella scelta della melodia, che B.B. canta con la chitarra oltre che con la voce.
B.B. suona in modo esplosivo, con una resa ricca e robusta. E a sua tecnica è dimostrata nel fraseggio, oltre che negli assoli raffinati. È tutto molto identificabile, talmente chiaro da poter essere messo per iscritto. Ad esempio le cose di John Lee Hooker erano troppo complesse per essere scritte, ma B.B. era un musicista genuino e diretto.
Ci sono due cose che ho cercato disperatamente di imparare. B.B. ha inventato questo fraseggio scarno in cui suona due note, e dopo salta sull’altra corda e scivola sulla nota seguente. Ormai lo suono anche nel sonno. E poi c’è quella roba a tre note, in cui flette l’ultima nota. Tutte e due queste tecniche non falliscono mai, ti scuotono la sedia.
C’è stato un punto di svolta, più o meno nel 1965, in Live at the Regal, in cui il suo suono ha assunto una personalità che è ancora oggi intoccabile –quel suono corposo, in cui il pick-up frontale non è in sincronia con quello posteriore. B.B. suona ancora con un amplificatore Gibson che è fuori produzione da un pezzo. Il suo suono è una combinazione di tutte queste cose, è semplicemente B.B. Di Billy Gibbons

5. Jeff Beck
Jeff Beck è la combinazione di una tecnica impressionante e una personalità esplosiva. È come se dicesse: «Hey! Io sono Jeff Beck. Sono qui e non puoi ignorarmi!». Negli Yardbirds aveva un tono melodico ma che ti arrivava dritto in faccia , chiaro e sconvolgente, ma dolce allo stesso tempo. Si può dire che fosse un musicista serio, non si tratteneva.
C’è un certo grado di maestria nel saper suonare con un cantante, rispondendo alle sue richieste e spingendolo alla melodia. La bellezza dei due album che ha prodotto con Rod Stewart nel 1968 e ‘69, Truth e Beck-Ola, è proprio il fatto che Jeff non predomina su Rod, ma lo accompagna. Jeff è stato in grado di abbattere le barriere del blues. “Beck’s Bolero”, in Truth, non è del tutto blues, ma in fondo lo è. Una delle mie tracce preferite è la cover di Howlin’ Wolf, “I Ain’t Superstitious” , contenuta in Truth. C’è senso dell’umorismo, tipo nell’uso di un wah molto gutturale. Non so se Clapton suoni con lo stesso senso dell’umorismo. Jeff lo aveva sicuramente.
Quando è entrato nella fase fusion, ho subito apprezzato la cover di Stevie Wonder “Cause We’ve Ended as Lovers”, nell’album Blow by Blow. Il tono era puro e delicato, era come se ci fosse una voce che cantasse la melodia della chitarra. Ho visto un concerto di Jeff a San Diego l’anno scorso, in un casinò, e la chitarra era la sua voce. Non manca il cantante, perché la sua chitarra è molto lirica. Suona in un modo spirituale, confidenziale. Dopo aver visto quel concerto, sono tornato a casa a esercitarmi. Forse è per questo che ho preso molto da lui: se vuoi essere Jeff Beck, fai i compiti. Di Mike Campbell degli Heartbreakers.

4. Keith Richards
Mi ricordo quando ero alle medie e ascoltavo “Satisfaction”; sono stato sconvolto da quel pezzo. È una combinazione del riff e degli accordi che ci sono sotto. Keith ha scritto riff a due o tre note che sono più potenti di ogni assolo mai fatto. Suonava un vibrato brillante, come nelle linee di “Gimme Shelter”. Penso che nessuno abbia mai creato delle sonorità così oscure e sinistre. C’è molta chiarezza fra le due chitarre, che lascia ampio spazio alla voce di Mick Jagger. Nessuno padroneggia le accordature come Keith. Mi ricordo quando suonavo il riff di “Beast of Burden”, mi dicevo: «Questi sono gli accordi giusti, ma non sonano come quelli di Keith». Aveva un’accordatura fighissima, che gli faceva suonare degli accordi pazzeschi. Quello è il punto focale di ogni parte di chitarra di ogni disco dei Rolling Stones. Keith trova l’accordatura che crea le canzoni degli Stones in base a quello che prova.
Sono andato a sentire Keith con gli X-Pensive Winos. Nel camerino Keith ha iniziato a suonare un riff di Chuck Berry. Non ho mai sentito nulla di simile nella mia vita. Adoro Chuck Berry. Ma quello era meglio. Non tecnicamente –c’era un contenuto emotivo che mi ha conquistato. Quello che Chuck è per Keith, Keith lo è per me. Di Nils Lofgren degli E Street Band

3. Jimmy Page
Ascoltare quello che Jimmy Page fa con la chitarra può trascinarti via. Come primo chitarrista, Jimmy suona sempre la cosa giusta al momento giusto –ha davvero buon gusto. L’assolo in “Heartbreaker” è così immediato; mette alla prova la sua tecnica ma è un numero sensazionale. Non si può considerare la tecnica chitarristica senza concentrarsi su quello che Jimmy faceva in studio e come usava la chitarra nei pezzi che ha scritto e prodotto. Jimmy aveva molta esperienza, acquisita negli Yardbirds e nelle sessioni di registrazione, e sapeva come ottenere il suono che voleva, ad esempio nel primo album dei Led Zeppelin.
Aveva una visione che prescindeva dagli stereotipi della chitarra. La chitarra di “The Song Remains the Same”, ad esempio, cambia continuamente –diventa più forte, poi morbida e poi forte di nuovo. Nessun altro chitarrista può farlo, escluso Les Paul, credo. Di Joe Perry

2. Eric Clapton
Eric Clapton è l’unico chitarrista che mi ha influenzato –anche se non gli assomiglio. Il suo stile era semplice, come il suo suono, tecnica e atmosfera. Prendeva una Gibson, la collegava a un Marshal e fine. Molto basico, blues. I suoi assoli erano melodici e memorabili –ed è questo il motivo per cui gli assoli dovrebbero sempre essere parte della canzone. Potrei canticchiarveli ora.
Quello che mi piaceva molto erano le registrazioni live dei Cream, perché potevi sentire quei tre suonare alla grande. Se ascolti “I’m So Glad”, nell’album Goodbye, ti rendi conto di quanto spacchino quei tre tipi –considerando anche che Jack Bruce e Ginger Baker venivano dal jazz e hanno spinto Clapton altrove. Una volta ho letto che Clapton ha dichiarato: «Non sapevo cosa diavolo stessi facendo». Cercava semplicemente di adattarsi agli altri due.
Dopo i Cream, Eric è cambiato. Quando ha iniziato a suonare “I Shot the Sheriff” e quando ha collaborato con Delaney and Bonnie il suo stile è cambiato. Almeno il suono. Si è concentrato più sul cantato che sulla chitarra. Lo rispetto per tutto ciò che ha fatto e continua a fare –ma quello che mi ha ispirato davvero a suonare la chitarra sono le sue prime cose. Potrei suonare alcuni assoli di Eric anche adesso, non me li scorderò mai. Quel suono blues è ancora il centro della chitarra rock moderna. Di Eddie Van Halen

1. Jimi Hendrix
Jimi Hendrix ha fatto scoppiare l’idea di quello che il rock era: ha manipolato la chitarra, la leva del tremolo, lo studio e il palco. In brani come “Machine Gun” o “Vodoo Child”, la sua chitarra è come una bacchetta magica dei turbolenti anni ’60 –riesci a sentire le proteste nelle strade e le bombe al napalm in “Star-Spangled Banner”.
La sua tecnica era disinvolta. Non c’è nemmeno un minuto di una sua registrazione in cui sembra che stia davvero soffrendo –sembra sempre che gli venga tutto naturale. Il pezzo più rappresentativo del canone Jimi Hendrix è “Little Wing”. Quella canzone è così maestosa che, come chitarrista, puoi studiarla per tutta la vita e non riuscire mai a entrare perfettamente nel brano. Jimi intreccia accordi e note singole perfettamente, e usa scale di accordi che non compaiono in nessun manuale di chitarra. I suoi riff sono stati precursori del metal e i suoi giri erano un viaggio sotto LSD in autostrada.
Ci sono pareri discordanti su chi fosse il primo chitarrista a usare il feedback. Non che questo importi realmente, perché comunque Hendrix lo usava meglio di tutti. Aveva intuito quello che sarebbe stato il funk degli anni ’70 e lo suonava con un muro di amplificatori Marshall in un modo che nessuno aveva mai immaginato.
È impossibile pensare a quello che farebbe Jimi oggi; sembrava un personaggio molto impulsivo. Sarebbe una figura monumentale del rock? Sarebbe Sir Jimi Hendrix? O se ne starebbe in vacanza sulla Vegas Strip? La buona notizia è che la sua eredità lo ha consacrato come il più grande chitarrista di tutti i tempi.
Di Tom Morello

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