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La cattedrale psichedelica di Syd Barrett

Animato dall'inesauribile genio creativo di Syd, 'The Piper at the Gates of Dawn' dei Pink Floyd ha cristallizzato lo spirito del 1967

Forse non c’è parametro migliore per misurare il paradiso che era Londra nel 1967. I Pink Floyd hanno realizzato il loro primo album, The Piper at the Gates of Dawn, tra l’inverno ’66 e la primavera del ’67, agli studi della EMI in Abbey Road. Nello stesso periodo, i Beatles stavano ultimando il loro monumento all’“era dell’acido”, Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band. Dall’oggi al domani, quel capolavoro ha cambiato il rock e la cultura popolare.

L’album d’esordio dei Pink Floyd è stato un trionfo. Prodotto da Norman Smith, ingegnere del suono delle prime sessioni dei Beatles, e scritto quasi interamente dal cantante e chitarrista Syd Barrett, magnetico frontman e anima creativa dei Floyd, The Piper at the Gates of Dawn è una vivida fotografia del suo tempo: il breve, luminoso apogeo della coscienza psichedelica in Gran Bretagna, in particolare quella miscela irripetibile e tipicamente inglese di furore post-mod, ardore d’avanguardia e perenne stupore infantile che è confluita nella musica di quel periodo. In Piper, i Floyd hanno creato un pop esplosivo e a suo modo commerciale coniugando tutti questi filoni, come rivelano l’apertura tortuosa di ascendenza Who e l’andamento da preghiera in Astronomy Domine; l’ipnotica fusione di iridescente surrealismo dylaniano e giocosa ingenuità in Flaming e Bike; e lo scattante decollo boogie verso i cieli sconfinati del free rock in Interstellar Overdrive.

Piper è famoso anche per quello che è accaduto dopo: la rapida e definitiva discesa di Barrett nel buco nero della malattia mentale e dei danni provocati dall’acido. “La sua testa non pensava / Le sue braccia non si muovevano”, cantava Barrett in The Scarecrow, inquietante premonizione del tracollo che avrebbe portato alla sua silenziosa uscita dal gruppo nel 1968. Ma in Piper i Floyd erano ancora un gruppo coeso e vitale. Con questo album, un successo entrato nella Top 10 britannica in quella che probabilmente è stata l’annata migliore del rock, l’underground è diventata una festa collettiva.

Piper è una straordinaria opera di reinvenzione. Qualche tempo prima, tra fine 1964 e inizio 1965, i Pink Floyd – che allora erano un quintetto, con Bob Klose alla seconda chitarra – avevano realizzato i loro primi demo in studio, e sembravano una convenzionale band di electric blues che muoveva i primi passi. In Piper, invece, la cosa più vicina all’R&B era lo sferzante riff di Barrett in Interstellar Overdrive, rielaborazione dell’increspata progressione armonica discendente di My Little Red Book, contenuta nell’album d’esordio dei Love uscito nel 1966. C’erano anche residui distorti dei loro concerti nei club e dei loro inizi alle feste tra amici nella strumentale Pow R. Toc H. e nei frastuoni galattici alla Yardbirds del primo brano firmato da Waters, Take Up Thy Stethoscope and Walk. Ma Lucifer Sam, immaginifico pezzo in cui Barrett ritrae il suo gatto, era un garage rock che sembrava provenire da Aldebaran: una scarica di swing vendicativo e laceranti sferzate di chitarra carica di echo e condita da vocalizzi beatlesiani.

Barrett ha tratto il titolo dell’album da un capitolo di Il vento tra i salici di Kenneth Graham, un libro per bambini pubblicato nel 1908 e ispirato alla figura di Pan, il dio greco dei boschi. In Piper abbondano i riferimenti al cosmo: Barrett cita le lune che orbitano intorno a Saturno e Urano in Astronomy Domine ed evoca l’assenza di gravità in Interstellar Overdrive. Ma Syd ha scritto per lo più di un’avventura terrena, dell’urgenza di emozioni forti e di una gioia che ristori e riscaldi. La vita nella Londra psichedelica, che si avviava verso l’Estate d’Amore, era come una favola della buonanotte che sviluppava la sua trama sera dopo sera. Barrett ha immortalato quell’atmosfera con precisione eterea in Matilda Mother, in cui una bambina viene lasciata col fiato sospeso ogni sera e, nel dormiveglia, anela a sentire la fine della favola (“Oh mamma, racconta ancora”).

Barrett, ex studente d’arte, ha scritto dell’esplorazione di mondi interiori con talento da pittore, e spesso con abili allitterazioni. Ma, come ha osservato Waters, nelle canzoni di Barrett c’era anche «una poderosa carica di umanità». Nel ritratto della malinconica sentinella di The Scarecrow, ha reso con acuta sensibilità la vita di un esiliato, una vita che presto avrebbe conosciuto fin troppo bene.

Nick Mason, Roger Waters, Syd Barrett e Rick Wright dei Pink Floyd durante un concerto a Londra il 16 dicembre 1966. Foto di Adam Ritchie/Redferns

Tutto ciò che Barrett è riuscito a fare in Piper (uscito negli Stati Uniti con qualche variazione nell’elenco delle tracce e con l’inclusione di See Emily Play, che in origine non faceva parte dell’album) non sarebbe stato possibile, o non avrebbe avuto esiti così durevoli, senza la combinazione di fattori che nei primi anni hanno tenuto in vita i Floyd anche senza di lui: il legame e lo slancio propulsivo di Waters e Mason, l’atmosfera vibrante e le ammalianti melodie di Wright all’organo e al piano. Infatti, alla fine di Piper, Barrett ammetteva che non c’era alcun divertimento, né alcun nirvana, senza amici. “Conosco una stanza di brani musicali”, dichiarava nella folle e rumorosa Bike. “Qualche verso in rima, qualche ching, molti sono meccanismi a orologeria. Andiamo nell’altra stanza e facciamoli funzionare”. E quando l’hanno fatto, quei suoni hanno dato l’impressione che il 1967 durasse per sempre.

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