Keith Richards racconta la rissa con Chuck Berry | Rolling Stone Italia
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Keith Richards: «Chuck Berry era il mio idolo anche quando mi picchiava»

Il leggendario chitarrista dei Rolling Stones ci ha raccontato l'amore, la convivenza e la rissa con il papà del rock & roll

Photo by Terry O'Neill/Getty Images

Chuck Berry e Keith Richards

Foto: Terry O'Neill/Getty Images

Keith Richards ha raccontato a Rolling Stone la storia della sua amicizia con l’idolo Chuck Berry

Chuck Berry mi ha fatto un occhio nero, una volta. Io lo chiamo la sua greatest hit. Siamo andati a vederlo suonare a New York e dopo lo show mi sono ritrovato nel suo camerino, vicino alla custodia dove era riposta la sua chitarra. Volevo guardarla, anche solo per interesse professionale, e mentre pizzicavo le corde Chuck è entrato nella stanza. Un secondo dopo mi ha tirato un cavolo di missile sull’occhio sinistro. Ho capito subito di essere nel torto. Se capitasse a me di entrare in camerino e di trovare qualcuno a toccare la mia chitarra, tirare un pugno sarebbe l’atteggiamento più normale del mondo, no? Mi sono solo fatto beccare.

Mi avrebbe anche spinto fuori dal palco, cose così. Ho sempre preso il tutto come una sorta di complimento, quasi un segno di rispetto – altrimenti mi avrebbe ignorato completamente.

Era un tipo spinoso ma aveva un’anima calorosa che non mostrava facilmente. A volte, quando ci incontravamo per suonare, mi diceva cose tipo «Eh, io e te ne abbiamo di merda in comune». Sentirlo parlare così mi emozionava molto.

Chuck è il nonno di tutti noi. Anche se sei un chitarrista rock e non lo consideri come una tua influenza principale, la tua influenza principale è probabilmente stata influenzata a sua volta da Chuck Berry. Lui è il rock & roll nella sua essenza più pura. Il modo in cui si muoveva, soprattutto all’inizio della sua carriera; la facilità esuberante con cui faceva quei ritmi era davvero qualcosa da ammirare. Riusciva a suonare con tutto il braccio, con le spalle e i gomiti. Chuck non faceva smorfie mentre suonava, un vizio comune a tutti noi. Chuck sorrideva mentre suonava quella roba.

E le sue composizioni, cazzo. Insomma, chi è che può scrivere una cosa come “Too Much Monkey Business”? “Jo Jo Gunne”, “School Days”, “Back in the U.S.A.”? E “Memphis, Tennesee”, un pezzo intoccabile. Questo brano ha una bellezza tutta sua, un intrigo e una tenerezza. Dentro c’è una specie di verità – una storia grande, commovente – accompagnata da una grande progressione di accordi, suonata divinamente. La batteria è una meraviglia. È una di quelle cose difficili da fissare su un album, e lui ci è riuscito. È tutto lì, in quei due minuti e mezzo.

Quando ero ancora un chitarrista rock in erba, la sua musica mi ha sparato nella stratosfera. C’è un periodo d’oro nella musica di Chuck. Quando lavorava con la Chess incideva negli studi migliori, con i musicisti giusti e Willie Dixon sempre alle sue spalle. Tutte le volte che ascolto quei dischi penso alla parola “esuberante”. Era una cosa sconvolgente da tutti i punti di vista – la produzione, il sound, l’energia dei musicisti. Dopo quell’esperienza si è messo in uno stato di ricerca, e il carcere non ha aiutato. Ne è uscito molto cambiato.

Lui era sempre versatile con la sua musica. Sapeva suonare tutto. Si è preso lick dai ragazzi del jazz – Charlie Christian e sicuramente la tecnica a due corde di T-Bone Walker – e conosceva molto bene gli autori dei principali standard americani. Era un vero fan di Nat King Cole. Credo ascoltasse davvero di tutto, perchè conosceva altrettanto bene il country. La sua musica è una miscela incredibile di tutta l’America. Ci sono influenze spagnole, bayou e anche le paludi.

Quando suonavo nei club con gli Stones, praticamente il nostro repertorio era “Chuck Berry e qualche blues” – due cose che, secondo me, non sono poi così diverse! Adoravamo suonare “Around and Around”. La musica di Chuck era interessante da suonare, non è così semplice come sembra – la vera sfida era trovare il modo di renderla sempre interessante. Il ritmo swing delle sue canzoni aveva un sapore particolare, il sapore del rock & roll: rimbalzava.

Nel 1986, quando ha scritto Hail! Hail! Rock ‘n’ Roll!, ho vissuto a casa sua a Berry Park per settimane. Era un sogno diventato realtà – vivo a casa con Chuck Berry! Stiamo tirando su una band insieme! Steve Jordan, Chuck Leavell e Joey Spampinato erano con noi e ogni giorno era un’avventura. Una volta mi sono svegliato nel cuore della notte e l’ho trovato in giardino con questa enorme macchina. Voleva pulire il tappeto alle tre del mattino: «Ho quasi finito!»

La scena del film con “Carol” era un suo modo per giocare. Mi stava prendendo per il culo. Mi correggeva sempre in modo diverso. Pensavo «Beh, adesso ti faccio vedere quanto posso essere stoico in queste situazioni».

La notizia della sua morte non è stata uno shock così inaspettato, ma mi sono sentito strano come quando è morto Buddy Holly. Ero a scuola e la notizia si diffuse tra i banchi come un sospiro. Tutta la classe era sospesa in questo sussulto d’orrore. Ecco, ho sentito la stessa stretta allo stomaco. Mi ha colpito più duramente di quanto pensassi, ma sono sicuro che Chuck sia ancora qui con noi. Un’altra cosa che mi piacerebbe emulare.

Come raccontato a Patrick Doyle