Jackson Browne: «Ci vantiamo della nostra democrazia ma lo è davvero?» | Rolling Stone Italia
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Jackson Browne: «Ci vantiamo di essere democratici. Lo siamo davvero?»

Il cantautore americano, a Roma per presentare il nuovo album "Standing in the Breach", ha detto la sua su vari temi scottanti, politica inclusa. A maggio 2015 nuove date italiane

Jackson Browne, foto via Facebook

Jackson Browne, foto via Facebook

È un Jackson Browne pacificato, ma ancora orgogliosamente irrequieto, quello che lo scorso venerdì si è presentato ai giornalisti italiani per una affollatissima conferenza stampa che si è tenuta all’interno dell’Auditorium Parco della Musica. Proprio come Neil Young, ha appena pubblicato un album, Standing in The Breach, fortemente a tema politico ed ecologista.
A vederlo così sereno, ma sempre in prima linea, viene spontaneo domandarsi il perché certe tematiche continuino a interessare e fare capolino nelle canzoni di una generazione ormai avviata al tramonto, mentre i nuovi esponenti del rock (o di quel che ne resta) contemporaneo sembrano del tutto immuni al contesto sociale che li circonda.

«L’idea di Standing in The Breach, la canzone, è nata circa tre anni fa come reazione al terribile terremoto che aveva appena colpito Haiti. Non è una canzone sul terremoto, però, ma sulle capacità che l’uomo ha di reagire a certe difficoltà che possono essere personali, private, ma che ovviamente poi finiscono per sfociare nel politico. La primavera araba, le proteste ad Honk Hong e quelle di Ferguson, mi hanno fatto riflettere e mi hanno portato a farmi delle domande su cosa sia la democrazia al giorno d’oggi e sul perché i governi finiscano sempre per prendere decisioni che non riguardano il benessere dei cittadini ma che fanno gli interessi di pochi. Per cui sì, quello che è venuto fuori è un album impegnato, ma diverso dai miei precedenti. Qui è come se parlassi di certi disastri ecologici e politici come se lo stessi facendo con un amico, non come se si trattasse di una dichiarazione pubblica».

L’album, ovviamente, guarda molto anche alla situazione interna agli Stati Uniti d’America e, a pochi giorni dalle elezioni di medio termine, Jackson ha voluto dire la sua: «Io ho votato Obama, lo dico senza problemi, e l’ho fatto due volte, non una. Però bisogna ammettere che molte delle speranze che avevo sono state disilluse. Parliamoci chiaro: sono state fatte molte cose positive, come il tentativo di riforma sanitaria, ma a lui avevamo affidato le nostre speranze di cambiamento. Volevamo un presidente davvero progressista, e Obama è di certo il presidente più attento alle minoranze che gli Stati Uniti abbiano mai avuto, ma alla fine ha scelto di sacrificare proprio quelle promesse di cambiamento per cercare di non turbare troppo l’opinione pubblica americana. A lui non perdono la guerra con i droni e il fatto di avere piazzato in posti di rilievo e prestigio gli stessi dirigenti che avevano condotto l’America nella crisi finanziaria più grave della sua storia. La verità è che in questo momento non esiste più destra e sinistra, conservatori e progressista, il Partito Repubblicano e quello Democratico sono divisi in apparenza ma uniti dal business».

Continua: «Noi siamo abituati a vantarci tantissimo della nostra democrazia, al punto che tentiamo anche di esportarla in giro per il mondo, ma siamo sicuri di vivere in una realtà davvero democratica? Siamo sicuri che siano davvero i cittadini a scegliere i loro rappresentanti e che non sia sempre e solo una questione di affari? Vi faccio un esempio: la corte suprema ha approvato da poco un emendamento che permette ai partiti di ottenere tutti i finanziamenti che vogliono, senza alcuna limitazione. Questo ha generato un sistema che permette al più ricco di vincere sempre e comunque. In questo momento il Partito Repubblicano è decisamente più ricco, e sostenuto da grandi aziende, rispetto a quello Democratico. Avere più soldi significa potere acquistare più spazio sui giornali e in TV. Più soldi hai e più influenzi l’opinione pubblica. Nel mio paese c’è ancora chi crede che Obama sia un socialista e un cripto mussulmano semplicemente perché una parte consistente dell’informazione ha interesse a fare circolare e mantenere la disinformazione. Puoi fare tutte le riforme che vuoi, ma se non vengono comunicate non hai speranza di rivincere le elezioni».

Tanta politica, quindi, ma non solo: «In realtà questo disco è molto personale, ci sono dentro tante cose che riguardano direttamente me, la mia vita, l’amore e le incertezze della vita moderna. Sono molto felice di avere avuto l’onore, grazie alla famiglia di Woody Guthrie, di potere musicare un suo testo rimasto inedito, come in una sorta di continuazione dell’operazione che i suoi eredi avevano cominciato ormai parecchi anni fa con Marmaid Avenue, l’album dei Wilco con Billie Bragg. You Know the Night è in realtà una lettera che Woody aveva scritto a sua moglie Nora, poco dopo che si erano conosciuti, e parla dei loro ideali e dei progetti di una vita insieme. È stato molto toccante avere il privilegio di trasformarla in una canzone, una canzone che racconta una storia d’amore potentissima: è come se si trattasse di un film sulla vita di questa coppia. Sono orgogliosissimo anche del testo di Walls & Doors che è la mia traduzione di un brano stupendo composto da Carlos Varela, un cantautore cubano, il più grande cantautore cubano, della generazione emersa negli anni ’90 e che invece di cantare la rivoluzione ha raccontato alla grande il dolore di una popolazione stremata dalla povertà».

L’interesse e la curiosità per la musica “degli altri” sembra essere uno degli elementi che mantiene Jackson Browne vivo e ancora aperto alle nuove scoperte: «Mi piace da impazzire tutta quella scena che va dai Wilco a Jonathan Wilson, passando per altri musicisti più o meno noti, e in cui rivedo l’attitudine che animava la cosidetta scena della west coast degli anni d’oro. Trovo incredibile l’ultimo disco, un doppio, di Lucinda Williams e poi, nel tributo che mi hanno dedicato lo scorso anno, sono rimasto colpitissimo da una versione di un mio pezzo, Running on Empty, rifatta da Bob Schneider, che non conoscevo e che mi era stato presentato come un autore di brani strumentali. Invece è uno che canta, e lo fa benissimo. Sono diventato un suo grande fan».

Dei prossimi concerti italiani dice: «Sarà un’occasione per stare insieme. Quando salgo su un palco, sia da solo che con una band, non ho regole, mi piace pescare qui e là nelle canzoni che hanno fatto la mia storia. Per cui, non temete, non farò solo nuovi brani».
A fine maggio tornerà in Italia per una serie di concerti attesissimi. Queste le date:
24 maggio – Roma (Auditorium Parco della Musica)
25 maggio – Bologna (Auditorium Manzoni)
27 maggio – Como (Teatro Sociale)
28 maggio – Torino (Teatro Colosseo)

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