A fine dicembre Calcutta ha chiuso col botto una tournée lunga un anno, anche più: dal videoclip girato tra i negozietti bangla del Pigneto senza neppure apparire all’uscita di Mainstream, dalla hit estiva Oroscopo col video della ragazza e del lago per qualche milione di views al tutto esaurito nelle ultime due date di Roma. Con 2.500 ragazzetti alla volta a gridare “mangio la pizza e sono il solo sveglio”, “ti giuro che torno a casa e mi guardo un film”, “tua madre lo diceva, non andare su Youporn”. Giustamente. Come quando entra Vasco allo stadio. E ancora, “non mi importa niente di tuo padre, ascolta De Gregori, a me quel tipo di gente non va proprio giù”. Pizza, film, Youporn, De Gregori. Gli oggetti poetici normali disseminati da Calcutta nelle sue canzoni. Come in certi versi di Vittorio Sereni o di William Carlos Williams, celebrati dall’ultimo meraviglioso film di Jim Jarmusch, Paterson. “Nessuna idea se non nelle cose”, diceva Williams. Non sottovalutate i cantautori. Quanto a De Gregori, il verso di Limonata già lungamente commentato in altre interviste sarebbe privo di qualsiasi valore generale: è il padre che non gli va giù, mica De Gregori. Epperò.
Come se ci fosse stato un doppio calcutta, fin qui. Uno sul palco, di fronte al microfono, con la felpa verde e la chitarra, a cantare le canzoni che tutti sanno a memoria (e le riprendono col telefonino, tenendo il concerto sullo sfondo, mentre riprendono se stessi che le cantano in tutto quell’estatico feedback da socialmedia). Un altro Calcutta poco discosto che guarda se stesso sotto l’impianto di luci da concerto qualsiasi, che non illuminano qualcosa, ma illuminano e basta tipo albero di Natale, e insomma ascolta le parole di queste sue canzoni di cui ha perso – come sempre succede quando le canzoni diventano molto famose – il controllo. Prodotto di un algoritmo italiano, semmai ne esistesse uno. «Ho fatto un disco di 27 minuti», si sentirà di dire il Calcutta due al Calcutta uno verso la fine dello spettacolo con suo quel modo spiccio, timido, dissociato, «siccome per questa serata avete pagato 15 euro io devo fare anche qualche canzone vecchia, e scusate se non vi piace».
Avendo intitolato il disco “mainstream” (ma soltanto per giocare con le aspirazioni troppo piccole dell’indie); avendo spiegato in più d’una intervista che al giorno d’oggi «l’arrangiamento è un puttana» e perciò lui ne voleva uno della mutua («come se ci fosse un Ministero dell’arrangiamento dove ti metti in graduatoria e, tipo tra due mesi, te lo danno aggratis, te lo passano»). Avendo scritto alcuni dei versi che meglio hanno definito il tono emotivo dell’annata passata, alcuni così perfetti da essere già scaduti (“Papa Francesco e il Frosinone in serie A” è un po’ come il Pipita rimasto con la maglia del Napoli in The Young Pope di Sorrentino); Calcutta finisce per pagare anche certi effetti paradossali del suo gioco. Ma per essere chiari: 2.000 o 200 persone di fronte non gli cambiano niente. Lui è sempre quello dell’intervista alla nostra Silvia Danielli, lo scorso giugno: «Oroscopo a me non piace, sinceramente. Non me la vivo serenamente». Bum.
Il cantautore dissociato. Il cantautore scontroso. Dopo quelle dichiarazioni a Rolling Stone aveva diradato un bel po’ il rapporto coi giornalisti (i ragazzi di Bomba Dischi che gli curano la comunicazione, riassumono con affetto che è uno per niente facile in questo genere di cose). Finché è tornato, recentemente, a dare altre interviste di circostanza. A una giornalista che gli chiedeva cos’è la libertà – «oltre a non lavare i piatti con lo Svelto» – ha attaccato il telefono in faccia. «Era la risposta alla tua domanda». Spiegava a qualcun altro: «Avevo finito le cose da dire nelle interviste. Non è che non siano vere, ma le domande sono più o meno sempre le stesse». Niente di che. Ma è proprio qua che ci torna buono indovinate chi? De Gregori. Il proto-cantautore scontroso. «La donna cannone? Certe aperture melodiche mi imbarazzano. Tutt’ora non è la mia canzone preferita», diceva il cantautore romano in un’intervista del 1988. E prima, nel 1977, parlando del successo di Rimmel: «Stavo diventando uno strano tipo di divo della canzone, e il rapporto tra me e gli altri, tra me e la realtà non era più possibile se non mediato dal personaggio De Gregori». Ricorda qualcosa?
a dire il vero, il primo a tracciare una linea retta tra De Gregori e Calcutta era stato Stefano Di Trapani detto Demented Burrocacao, strepitoso cultore di cantautorato marginale italiano su Noisey e (non causalmente) tra i primi collaboratori del cantautore di Latina nelle produzioni ultraindie di quando suonava nelle cantine del Pigneto, per 20 persone: Sabaudian tapes, su cassetta, e Forse… In un pezzo dedicato al cosiddetto “disco della Pecora” di De Gregori (1974, quello con Niente da capire e Giorno di pioggia) Demented accomunava giustamente i due sulla linea del cantautorato weird, delle canzoni “al limite”, praticamente Syd Barrett. E allora per questo Mainstream dovrebbe essere il Rimmel di Calcutta? Simbolicamente almeno, ahilui, sì. Aggiungo – perché queste coincidenze mi divertono – che la collaborazione di Calcutta (solo come autore) con J-Ax e Fedez, annunciata con grande scandalo indie lo scorso luglio, potrebbe avere un mezzo precedente nella temibile traduzione dall’inglese di Vincent di Don McLean che De Gregori fece all’epoca per Little Tony (“Come un anno fa / lacrime nel cielo blu”). Un lavoretto successivamente infamato dallo stesso cantautore in un’ulteriore canzone: Informazioni di Vincent (“E stasera ho tradito gli affetti / ho affittato i miei occhi a una banda di ladri / vedo quel che vedono loro”). Per questo e per molto altro ancora ci fu un “processo” a De Gregori, nel 1976 al Palalido di Milano. Concerto interrotto, riportato sul palco e interrogato da una quarantina di autonomi davanti a tutti. Una storia che per qualche motivo e nonostante il tanto tempo che è trascorso, non vuole saperne di passare, o almeno assumere delle dimensioni un po’ meno mitologiche.
Faccio una parentesi: la storia recente del rapporto tra nuovo e vecchio cantautorato italiano ha comunque qualcosa a che fare con la mitologia del processo al cantautore. La cosiddetta terza generazione indie (Calcutta, i Cani, Cosmo, Motta…) sembra infatti nascere dalla riscoperta critica di quei cantautori che nei definitivi anni ’70 e ’80 sfuggirono al processo, perché si condannarono da soli e gliene fregava poco e niente (come Rino Gaetano), perché decisero di scomparire fragorosamente e personalmente (Lucio Battisti). O perché minorissimi stracult e basta (Enzo Carella e tanti altri come lui, dimenticati). Per non contare gli altri che attesero con pazienza gli anni ’80 per uscire dall’occhio del ciclone, come i milanesi Finardi e Camerini. Ma per dire: di recente il “processo a De Gregori” lo ha citato ancora Fedez in un’intervista, commentando il titolo del suo prossimo album, realizzato con J-Ax, Comunisti col Rolex (titolo quanto meno discutibile, se posso dare un parere, pensavo che i comunisti se li fosse portati nella tomba Berlusconi). Ecco. Di quella serataccia d’aprile con De Gregori si conserva la memoria di alcune voci: “Se sei un compagno, non a parole ma a fatti, allora lascia qui l’incasso” (prendeva un milione e 200mila lire, all’epoca). E poi: “Majakowsky era un vero rivoluzionario e si è suicidato. Suicidati anche tu!”. Roba abbastanza inservibile al giorno d’oggi. Senonchè, quella fu la generazione, per rimanere in tema di arte e rivoluzione, che “dissipò i propri cantautori”. Che tirò lattine e madonne e grida d’ogni genere a De Gregori e Alan Sorrenti, a Edoardo Bennato e Antonello Venditti, perché pretendevano di cantare delle canzoni. E cantare delle canzoni allora era troppo poco. Come dar loro torto? Solo per noia, e conformismo borghese si può dar torto a contestatori, autoriduttori, cavalli pazzi, gente che saliva sul palco a leggere comunicati di solidarietà. “Una poetica ermetica, dell’intuizione lirica, è una poetica tendenzialmente idealista, dunque di destra”, scrivevano intanto con bello stile i critici del mensile di ultrasinistra Muzak.
Ma no, che nessuno farà il processo a Calcutta. Chi, poi, dovrebbe? E in nome di cosa? La “svastica in centro a Bologna”, “fiamme nel campo Rom”, oppure il tradimento dello spirito dei localini nottambuli del Pigneto con tessera Arci – il Fanfulla e Dal Verme – da dove tutto è cominciato e che ancora fanno capolino (indebitamente?) nelle sue canzoni? Però, facendo ricerche sul profilo Facebook del cantautore e della sua gang discografica, ho scovato una tesi di laurea in Sociologia delle comunicazioni all’università di Bologna (e dove sennò?). Titolo: Il caso Calcutta. L’ha scritta la studentessa Chiara Moscardi. Si cita una vecchia intervista di Davide Caucci, il responsabile dell’etichetta Bomba Dischi (che ha una formazione in campo marketing): “Non pensare a come avere successo è la prima regola per avere successo”. Buono. Osserva quindi Chiara, a proposito del non-stile di Calcutta e della maniera in cui è penetrato nei social media e tra il pubblico reale, la cosa più evidente di tutte: “Non sembra un artista che sta cercando di attirare l’attenzione del pubblico come molti cantanti spigliatissimi che vediamo nei talent televisivi”.
noi al giorno d’oggi, malati di narcisismo e machiavellismo da social media e da talent show, siamo purtroppo molto poco inclini a credere che esista qualcosa come la spontaneità, la sincerità e la causalità del successo. Sì certo, ci ripeteranno mille volte nelle interviste che “tutto è successo per caso”, per seguire la vecchia mitologia grassroots e rock&roll. Ma quello è sempre e soltanto il primo capitolo della storia che vogliamo sentirci raccontare. Preferiamo, invece, pensare che tutto nel mondo accada per strepitosa abilità comunicativa. Ci sentiamo, anzi, quasi tutti laureati honoris causa e grandi esperti nell’apprezzare sottigliezze e sprezzature del marketing digitale casual. Forse, immagino, per assolverci dalle bufale seriali in cui in realtà finiamo per cascare con tutte le scarpe. Bufale politiche, in genere: Movimento 5 Stelle, Renzi, la Seconda Repubblica. Fate voi.
Sono passati quarant’anni dal processo a De Gregori (che quella sera si trovò, disperatamente, unico e solo, faccia a faccia con i suoi critici), ma noi, ancora oggi, non possiamo uscire dal paradosso del cantautore. Il paradosso del cantautore è quando smetti di sentire la canzone, quando cominci ad ascoltare le parole e, da lì, metti sotto giudizio le intenzioni del cantante stesso. E pensi che ti stia fregando. Noi non possiamo non dirci un popolo di cantautori. È una malattia nazionale: dipende dal melodramma, da Verdi, dalla pessima educazione musicale nelle scuole, dalla paura dello spirito della musica – Nietzsche, Wagner, chissà da che cosa dipende. Ma mettiamola così: finché ci sarà un Calcutta due che sorveglia il Calcutta uno e le sue canzoni con gli arrangiamenti della mutua sfuggiti al controllo, mettendoci l’ironia e l’impaccio di chi vuole tenersi da parte qualcosa per sè, andrà tutto abbastanza bene.