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Indagine sullo stato di coma della canzone politica

Dopo Achille Lauro al Concertone e ‘Bella Ciao’ dedicata ai rapinatori della ‘Casa di Carta’ si può ancora scrivere musica politica? Ne abbiamo parlato con i Ministri, Colapesce e Lo Stato Sociale

Indagine sullo stato di coma della canzone politica

Lo Stato Sociale sul palco del Concertone, foto Kimberley Ross

Con l’uscita di Love, l’ultimo album dei Thegiornalisti, la maggior parte delle testate italiane, cartacee o web, sono tornate ad occuparsi del rapporto che ci può essere tra musica e politica. A molti non va giù il fatto che i nomi di adesso – che sono cantautori ma con un approccio pop completamente diverso di quelli che hanno fatto il ’68 – parlino al grande pubblico sostanzialmente dei cazzi loro e non di impegno civile. La canzone politica è morta? Se lo chiedono in tanti. È un buon modo per avere reaction facili, centinaia di condivisioni e tante opinioni scritte a gran voce sulle bacheche di Facebook, in un dibattito che mette insieme i bei tempi andati, il crollo dei valori e la solita distinzione arbitraria tra cultura alta e cultura bassa che ci accompagna dai tempi di Dante Alighieri.

La domanda, di per sé, non è poi così utile. La canzone dovrebbe sempre essere impegnata: ovvero nascere da un’idea, da un sentimento, da qualcosa che ha veramente toccato la sensibilità dell’autore che poi ha deciso di lavorarci sopra con impegno e – versione, dopo versione, limatura dopo limatura – è arrivato a considerarla bella a tal punto da poterla cantare davanti ad un pubblico. Di contro, il pensiero che un artista si sieda ad un tavolo e decida di mettere in musica un preciso messaggio politico suona più come un compitino o, peggio, come un vero e proprio atto di propaganda. «In realtà credo sia una bellissima domanda, ed è giusto porsela ogni tanto» – commenta Federico Dragogna de I Ministri – «Il problema è che nella stessa definizione di canzone politica c’è un grande rischio. Se l’artista si limita a cantare una serie di proclami, a casa mia è propaganda. Non mi importa che la facciano i buoni o i cattivi, i nazisti o i comunisti, ma sei stai usando la canzone in quel modo, non stai facendo una cosa così diversa da quelli che cantavano Meno male che Silvio c’è». La domanda più utile, quindi, potrebbe essere non tanto se la canzone politica sia morta, quanto come si sia evoluta fino ad oggi. Perché, ovviamente, a cinquant’anni dal ’68, di cose ne sono successe parecchie. Non c’è bisogno di dover citare Bauman e la sua modernità liquida per spiegare come le variabili contemporanee – economiche, sociali, razziali, geografiche, ecc – siano volubili e incerte e che sia un gran casino poi riuscire a raccontarle in musica; oltre al fatto che servano nuovi modelli per farlo. «Ai tempi di Guccini e Pietrangeli era più semplice cantare il presente perché c’era la sinistra e c’era la destra, ora è un continuum, è tutto più sfumato» – spiega Colapesce – «Il racconto si fa più torbido ma, al tempo stesso, è più stimolante. Perché poi se davvero ci riesci, possibilmente senza che le tue parole invecchino subito, allora puoi dirti realmente soddisfatto».

Al Concertone di quest’anno c’era Achille Lauro e non più i Modena City Ramblers che cantavano Contessa di Pietrangeli. Bella ciao per buona parte del mondo è diventata il motto di un gruppo di criminali che rapina la zecca di stato. Oggi l’idea di tradurre l’impegno civile in musica porta con sé una serie piuttosto lunga e contraddittoria di domande. Partirei da quella più facile: la canzone politica ha una data di scadenza? «Non ci si può fare molto. Se sono legate all’attualità, chiamiamole instant classic, possono scadere più facilmente» – risponde Alberto Cazzola de Lo Stato Sociale – «Certo, l’obiettivo di chi scrive dovrebbe essere quello di non fermarsi alla mera attualità, di cui invece si occupa il giornalista». Continua Colapesce: «Molte canzoni degli anni ’90 fotografavano esattamente una specifica condizione, ma non andavano oltre quel momento. La guerra di Piero, invece, è immortale anche se parla di un fatto circoscritto nel tempo. Quel pezzo è tridimensionale, riesce a smarcarsi da qualsiasi contesto tu lo ingabbi. È l’aspetto che più mi interessa dello scrivere canzoni ed è la regola fissa che, nel mio piccolissimo, provo a seguire sempre».

Quello che Colapesce intende per “tridimensionalità” di una canzone non è altro che un tipo di scrittura che suggerisca più livelli di interpretazione, così come tante sfumature che la allontanano dall’essere un semplice slogan da urlare in piazza – per chi ci va ancora – o da mettere su una maglietta da vendere alla bancarella dei propri concerti. Trovato il linguaggio con cui esprimersi, il problema, poi, è venire capiti da chi ti ascolta: «Quando Iosonouncane definiva Die, il suo ultimo disco, un album politico, capivo perfettamente cosa voleva dire» – spiega Colapesce – «La storia di un naufrago che tenta di sovrastare forze più grandi di lui è sicuramente un modo molto forte per raccontare il nostro presente politico, così come considero molte mie canzoni “politiche” anche se non hanno dei riferimenti espliciti nel testo. Si presuppone però che l’ascoltatore abbia la voglia e la capacità di cogliere questo messaggio. Il rischio che oggi una canzone diventi elitaria è evidente, ed è un problema che mi sono posto spesso e un obiettivo su cui lavoro da tempo: far evolvere il linguaggio ma rimanendo accessibili, senza scomodare filosofi, eccedere nelle citazioni o cose del genere».

Se da un lato ci si preoccupa del troppo ermetismo e di rivolgersi solo alla nicchia più colta della popolazione, ovviamente c’è anche il problema opposto, tipico del momento storico che stiamo vivendo: essere tacciati di populismo. Da Nu juorno buono di Rocco Hunt fino a Una vita in vacanza, è un attimo che si diventa quelli del sentimento facile e del parlare alla pancia. «Ce l’hanno detto un sacco di volte» – risponde Alberto – «Noi abbiamo continuato a fare quello che volevamo. Puoi anche parlare alla pancia delle persone, ma essere populisti è un’altra cosa. Il populismo analizza cosa vuole la massa e cerca di assecondare questo desiderio per poi vendergli un prodotto politico. A noi invece è sempre interessato il contrario, promuovere un pensiero semplice ma che, ahimè, rappresenta solo una fetta più piccola della popolazione, ovvero: l’uguaglianza è la cosa migliore per il mondo». Se state pensando che il rischio sia solo quello di venire presi per dei fricchettoni che non sanno accettare i cambiamenti e la cosiddetta submodernità, il problema è decisamente più complesso e si presenta a dovere quando la politica tenta di appropriarsi di una canzone o anche solo di un suo verso. Pensate a Renzi che ha citato Il Costume da torero e a Brunori Sas che si è trovato costretto a ribadire che le canzoni devono rimanere autonome dai partiti, perché è già nell’atto stesso di scriverle che emerge il fare politica. Più che una mancanza di presa di posizione, è una difesa diretta nei confronti di cosa si scrive: «Se la canzone esce e dal suo microcosmo ed entra in quello della politica perde il suo significato» – spiega Alberto – «La tua canzone diventa una discussione da bar, non ha più nulla di artistico, ed è molto pericoloso. Poi il rischio di venire strumentalizzati c’è sempre, non ci puoi fare niente. Pensa a Rino Gaetano che è finito sui manifesti di CasaPound. Per sua fortuna, era già morto».

Insomma, è un campo minato. Da un lato c’è da tener presente che gli artisti oggi raramente si espongono in merito alle questioni dell’attualità, con il rischio di alimentare il solito cliché, tanto caro a Sallusti, del creativo snob che non conosce il paese reale. «Mi era sembrata strana la vostra copertina contro Salvini» – commenta Colapesce – «Tolte le dovute eccezioni, molti dei presenti non avevano mai fatto dichiarazioni di questo tipo. Non si ci può esporre solo quando si è in branco». Dall’altro bisogna ricordarsi che un songwriter e un politico hanno ruoli diversi e che questi non vanno confusi per i problemi di cui sopra. «Il compito di una canzone è restituirti bellezza, non quello di pedagogizzare il tuo pubblico» – continua Colapesce – «Bufalino diceva una cosa in cui credo molto, ovvero che l’unica vera rivoluzione la può fare un esercito di insegnanti. Ora le nuove manovre richiederanno ulteriori tagli di risorse e continueranno a demolire la scuola, aggiungendo drammi su drammi. Io sono seriamente preoccupato, ma capisci che non puoi mettere tutto questo all’interno di un testo musicale».

In ultimo c’è la domanda, forse la più importante, quella a cui è diventato molto difficile rispondere. Come si gestisce la rabbia? Saper capitalizzare l’indignazione è sicuramente un affare. Lo spiega bene Leonardo Bianchi nel suo libro La gente. Viaggio nell’Italia del risentimento: nella nostra storia recente, ogni qual volta ci siamo trovati davanti a manifestazioni di grande dissenso popolare, o anche solo a un benzinaio che si difende dagli zingari sparandogli con il fucile, nel giro di poco arrivava un politico – di solito di estrema destra o della Lega – a metterci una bandierina sopra. La rabbia è il nuovo petrolio, fa la fortuna dei partiti, delle trasmissioni televisive, dei giornali. Come può un artista raccontare la propria frustrazione verso ciò che lo circonda senza trasformarsi nel peggiore degli indignati? «E da lì che si deve ricominciare, almeno come scrittori» – risponde Alberto – «Bisogna ripartire dalla consapevolezza, che è quella cosa che ti aiuta ragionare, a contare fino a dieci, anziché assecondare il flash di quell’attimo che ti passa davanti e che tu interiorizzi subito, lo fai diventare rabbia, quella viene cavalcata, trasformata e rivenduta. Il pensiero è il nostro bene più importante e lo dobbiamo coltivare».

Continua Federico: «La rabbia una volta era l’espressione dei giovani e delle controculture, oggi è diventata il linguaggio degli adulti. È sconfortante, se ci pensi. Nel nostro ultimo disco abbiamo fatto il possibile evitare quel “voi” e l’impressione che fossimo più puri degli altri; nonostante cantassimo “sto diventando buio anch’io”, “idioti, ci trascinate giù con voi” c’era comunque il rischio di essere fraintesi. Non c’è un modo per risolverla, l’unica è fare i conti con i propri spettri, guardarsi dentro prima di indignarsi per quello che c’è fuori. Parlare del qui e ora della politica, che tra l’altro si aggiorna con una velocità tale per cui è impossibile dedicargli un disco, è sempre meno interessante. La lascio volentieri al teatrino di Facebook».

E se vi chiedessi qual è la canzone politica più bella degli ultimi anni? «L’uomo nero di Brunori è molto bella» – risponde Federico – «È un brano che mette in discussione in maniera forte le proprie sicurezze ma, pur dicendo di non essere migliori di altri, riesce ad approdare ad un terreno da cui ripartire. Trovo che sia importante, in una canzone politica, continuare a cercare di ridefinire le cose, le basi, quei i valori su cui tutti dovremmo essere d’accordo».

«L’uomo nero è un pezzo che racconta molto dei nostri tempi, mi è piaciuto moltissimo» – ribatte Alberto – «Ma ha un difetto, è scritto troppo bene. Nonostante sia un testo abbastanza semplice risulta ancora elegante. Perché la canzone funzioni deve arrivare ovunque e avere un linguaggio che le permetta di essere veramente politica ad ampio spettro. Deve comunicare a tutti senza perdere la poesia, la bellezza della musica, l’intelligenza del contenuto. Riuscirci è una delle cose più difficili in assoluto». Conclude Colapesce: «Credo che This is America di Childish Gambino riassuma benissimo quello che ci siamo detti finora. Usa il linguaggio della trap, ma in modo critico, non da rapper. Tutto diventa funzionale ad un racconto perfetto su cos’è l’America oggi. Il video, poi, è stupendo».

Per Alberto la canzone politica è positivista: se anche solo uno su mille, o su un milione non importa, fa un pensiero diverso o un passo in più verso una precisa direzione allora ha svolto il suo dovere. Colapesce – e non solo lui, va detto – sostiene invece che una canzone non ha mai cambiato la società e mai lo farà. Federico è decisamente meno pessimista: «Dipende dalla predisposizione di ognuno. A volte è quello che ti serve per reagire, ce l’hai a tanto così di distanza e non ti muovi da quel divano. Ci sono canzoni che sembrano scritte apposta per te e per quel preciso momento, quelle hanno una potenza enorme. A me hanno davvero salvato la vita. Quando mi accorgo che sto accumulando troppa ansia, di solito è perché, molto semplicemente, mi sto dimenticando di ascoltare musica». La canzone politica è morta? Non preoccupatevi, è viva e lotta insieme a noi.

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