«Io lo sogno ancora, il Jungle. È il simbolo della fuga da una realtà che mi andava stretta. Studiavo Legge, avrei fatto l’avvocato. Mentre i miei amici continuavano a frequentare l’università, sono entrato qua dentro per fare le pulizie, 600 metri quadri da solo». Da receptionist, anzi «king dei receptionist» del Jungle Sound a discografico: l’ospite della nuova puntata del vodcast Milano sogna (a questo link tutte le puntate) è Klaus Bonoldi, oggi A&R Director di Universal Music Publishing Italy.
«Il Jungle mi ha regalato la vita che volevo, questo è poco ma sicuro», dice Bonoldi a Fabrizio Rioda, fondatore del Jungle e dei Ritmo Tribale, e host di Milano sogna. «Venivo da un ambiente diverso dal vostro, più paninaro nonostante avesse ben altre inclinazioni musicali. Se ricordi ero bello abbronzato e col capello giusto, ma ero attratto dalla gente che era il mio opposto. Ricordi i Negazione? Condannati a morte nel vostro quieto vivere. Io facevo parte del quieto vivere e qui vedevo un’inquietudine estremamente vitale».
Arrivato al Jungle prima dell’apertura ufficiale perché era frequentato da un amico che suonava la chitarra, Bonoldi è entrato e ha provato «un’emozione mistica tipo i Blues Brothers che entrano in chiesa e vengono avvolti da un fascio di luce. Io te lo giuro, ho sentito questo fascio e ho provato una sensazione di benessere che raramente ho poi risentito».
Dalla reception è passato ad occuparsi della parte organizzativa delle nuove produzioni. «Uno dei ricordi più belli è il primo disco piazzato a una major, quello degli Scisma. Mi avevi incaricato di ascoltare un po’ di cose in giro e a quel tempo o si andava in giro per locali o si chiamavano gli amici nelle altre città o si leggevano le recensioni o si aspettavano le famose buste. Gli Scisma ci mandarono il loro primo EP che se non sbaglio era Bombardano Cortina. Registrammo tre pezzi col nostro fonico interno, dopodiché io sarei dovuto andare in giro a cercare di piazzarlo. Erano gli anni in cui le major stavano aprendosi al mondo alternativo. Il demo dove c’era Rosemary Plexiglas lo piazzai alla EMI che aveva creato una di quelle finte etichette indipendenti. Ho avuto la fortuna di aver fatto il talent scout in un periodo in cui non c’erano i numeri, per cui le cose te le dovevi inventare ascoltandole. Oggi che sono in competizione con ragazzini di 20 anni che hanno la Rete in mano e sanno giocare con le statistiche, il fatto di metterci anche l’orecchio è un vantaggio».
Bonoldi spiega tra le altre cose alcuni meccanismi della “fabbrica delle canzoni” di oggi: lo spostamento dai luoghi fisici della musica a quelli della Rete, l’idea da Fabri Fibra in poi di ampliare i pubblici unendoli e quindi moltiplicando gli stream con i feat, il lavoro di chi si occupa di publishing che è quello di creare un repertorio funzionale. «Prendi due pezzi del rock americano come I Was Made for Lovin’ You dei Kiss e Angel degli Aerosmith. Se vai a vedere gli autori, oltre ai membri del gruppo c’è il nome di Desmond Child: nella mentalità di due band storiche come quelle c’era l’idea di collaborare con un grande autore».
«In quanto editore quello che cecro di fare è quello che da fuori viene chiamato modo dispregiativo canzonificio, la fabbrica delle canzoni. Si tratta in realtà di un gruppo di ragazzi bravissimi in grado di scrivere qualsiasi cosa, che poi proponiamo in giro. Se abbiamo una buona strumentale con un ritornello andiamo dal rapper e gli proponiamo la cosa che magari lui sa fare meno, una linea melodica sulla quale può costruire le strofe, con dentro quattro, cinque, sei autori che poi diventa un pezzo di successo. Gli esempi sono tantissimi, dalla collaborazione di Fedez con Roberto Casalino e Dardust per Magnifico a In radio di Marracash che è partita da un’idea di Federica Abbate sul ritornello».
«Sono fondamentalmente collaborazioni tra musicisti. In America sono normali, solo qui sembrano un problema. Abbiamo preso esempio dal modello svedese di Max Martin. Scrivevano pezzi e li davano in giro collaborando con artisti grossi del mondo R&B, urban, pop. Non c’è niente di strano o di malvagio».













