Il soul senza confini di Ray Charles | Rolling Stone Italia
News Musica

Il soul senza confini di Ray Charles

Il 10 giugno 2004 è morto uno dei pionieri della musica popolare americana, un polistrumentista geniale che ha influenzato tutta una generazione

Il soul senza confini di Ray Charles

Al centro della musica popolare americana si combatte una battaglia tra peccato e salvezza, tra i festini del sabato sera e la santità della domenica mattina. Per Ray Charles, però, la contraddizione non è mai esistita: questi bisogni così diversi sono in realtà una cosa sola, e la sua musica esiste proprio per dimostrarlo. A partire dalla sua hit del 1954 I’ve Got a Woman, Ray Charles ha raccontato storie di desiderio, nostalgia e lussuria mescolandole con i ritmi e le atmosfere del gospel, gettando le fondamenta di quella che presto sarebbe diventata la musica soul. Una piccola variazione nel testo – da “this little light of mine” a “this little girl of mine”– faceva tutta la differenza del mondo.

L’impatto fu immediato, un cataclisma. Il pubblico era eccitato, la comunità religiosa terrificata. «Qualcuno dice che è musica sacrilega», ha detto nel 1991. «Ricevo lettere da predicatori, dicono che ho imbastardito gli inni sacri. Poi, cinque anni dopo, è diventata soul music e si sono messi tutti a suonarla».

Ray Charles durante un concerto in Georgia nel 1987

Questa rivoluzione sarebbe più che sufficiente per giustificare gli innumerevoli elogi ricevuti prima e dopo la morte, avvenuta il 10 giugno 2004 nella sua casa di Beverly Hills a causa di un cancro al fegato. È stato uno dei primi a essere inserito nella Rock & Roll Hall of Fame, nel 1986. Ha vinto 12 Grammy e una Presidential Medal for the Arts.

Questi riconoscimenti sono ancora più straordinari se ricordiamo l’incredibile povertà che ha vissuto da ragazzo, per non parlare della cecità causata dal glaucoma contratto a sei anni. Ray Charles Robinson è nato nel 1930 nella città di Albany, in Georgia. Sua madre gli ripeteva sempre che non c’era niente che non potesse fare: “Tu sei cieco, non stupido”. È cresciuto a Greenville, in Florida, dove ha frequentato la Florida School for the Deaf and Blind. Il viscido razzismo del Sud non lo ha mai risparmiato. «Immagina bambini separati a seconda del colore della loro pelle, immagina vivere una situazione del genere senza poter vedere nulla», ha detto una volta. «Dimmi tu se non è una vera merda!»

Grazie al Braille ha imparato a leggere e scrivere musica: Ray Charles suonava senza problemi pianoforte, clarinetto, tromba e sassofono. Ha lasciato la scuola nel 1945 determinato a diventare un grande musicista. Si è fatto una promessa: «Niente cane, niente bastone e niente chitarra. Ho sempre associato queste tre cose alla debolezza e alle suppliche». È diventato subito uno dei pezzi forti del circuito dei club della Florida, suonava musica figlia di quella di Nat “King” Cole e Charles Brown.

La Florida, però, non era abbastanza grande per le sue ambizioni e – dopo aver chiesto a un collega quale fosse la città in assoluto più lontana da Tampa – se n’è andato a Seattle. È lì che ha firmato il suo primo contratto e pubblicato il suo primo singolo, Confession Blues. L’Atlantic Records gli ha offerto la libertà musicale che desiderava nel 1952: poteva produrre le sue sessions da solo e scegliersi i musicisti che voleva. «Alla fine ho capito che la cosa migliore da fare con Ray Charles era lasciarlo solo», ha detto Jerry Wexler, all’epoca uno dei dirigenti dell’etichetta. La sua fiducia è stata presto ripagata, Ray ha iniziato a pubblicare un classico dopo l’altro: I’ve Got a Woman e Drown in My Own Tears su tutte.

Ricevo lettere da predicatori, dicono che ho imbastardito gli inni sacri. Poi, cinque anni dopo, è diventata soul music e si sono messi tutti a suonarla

Successivamente ha inserito nel suo sound un coro femminile – le Raeletts -, un’idea geniale per bilanciare la mascolinità del suo timbro baritonale. Si tratta di un altro furto al mondo gospel: questa volta, però, Ray ha caricato di tensione erotica i tradizionali “scambi” tra le voci, una tecnica che ha perfezionato per il suo singolo del 1959, What’d I Say. La canzone, per Ray rappresentava i “dolci suoni dell’amore”, fu al centro di polemiche incendiarie tra i predicatori. Ha venduto più di un milione di copie.

Lo stesso anno la ABC gli ha fatto un’offerta impossibile da rifiutare: 50,000 dollari in anticipo e la proprietà dei suoi master. Nel 1960 la sua versione di Georgia On My Mind (il brano di Hoagy Carmichael) ha raggiunto il primo posto delle classifiche americane; due anni dopo i due volumi di Modern Sounds in Country & Western Music hanno disintegrato i confini tra country, pop e R&B. Nel 1964 l’arresto per possesso di eroina, il punto più basso della sua carriera: Ray impiegò un anno a liberarsi della dipendenza e non ha mai più voluto parlarne.

Nei decenni successivi è sempre rimasto attivo, sia sul palco che in studio, ma con meno intensità di un tempo. Il suo contributo alla musica contemporanea era già così grande che era impossibile non rilassarsi almeno un po’. La sua influenza è stata decisiva per tutti gli artisti della generazione successiva: Van Morrison, Aretha Franklin, Joe Cocker e Billy Goel. Ha lasciato dodici figli, venti nipoti e cinque pronipoti.

Nel 1991 qualcuno gli ha chiesto cosa volesse che rimanesse della sua musica. «Sarei felice se la gente pensasse questo: “Ho solo una cosa da dire della musica di Ray, è sincera. Magari non ti piace tutto quello che ha fatto, ma è reale. È sempre genuina”. Sarei davvero felice se fosse questo quello che si dicesse della mia musica, sia adesso che dopo la mia morte».

Altre notizie su:  ray charles morte Ray Charles ricordo