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Il ragazzo del 21esimo secolo: intervista a L-Vis 1990

Fossero gli anni Sessanta, il DJ di Brighton sarebbe un mod. Ma niente lo può separare dal suo secolo

Il ragazzo del 21esimo secolo: intervista a L-Vis 1990

Una delle missioni principali di L-Vis 1990 è non legarsi a generi o stili musicali. Può succedere che il produttore di Brighton si svegli alla mattina con la voglia di fare un album dance. Oppure, come è successo con il nuovo 12 Thousand Nights, può capitare che riunisca sotto lo stesso disco i migliori artisti della scena londinese e dia vita a un piccolo capolavoro grime/rap.

Ma a James Connolly, il suo nome all’anagrafe, non piace chiamare album quello che in realtà è un contenitori di tanti pezzi, slegati fra loro ma prodotti nello stesso periodo.

Che è successo nel 1990?
Il mio moniker non ha a che fare con la mia data di nascita—sono nato nel 1984. Deriva invece da una band degli anni Ottanta che si chiamava Sigue Sigue Sputnik. C’era questo loro pezzo che si chiamava 21th Century Boy. Nell’intro si sente questa voce profonda e molto cinematografica che descrive una band che, si dice, cambierà il futuro rivisitando il passato. La band si chiama L-Vis 1990.

Ce l’hai mai avuta una band?
Sono un DJ da quando avevo 14/15 anni. Parecchio tempo fa, ora che mi ci fai pensare. Saranno tipo 18 anni che lo faccio…

Ti stai sentendo un po’ vecchio?
Sì, anche perché facendo due conti ho passato più di metà della mia vita mettendo dischi. A volte nemmeno mi sembra di aver iniziato. Comunque sì, ho mosso i primi passi comprando giradischi e un bel numero di vinili french house. Sai, Daft Punk..

Sì, Alan Braxe, Stardust, Cassius..
Esatto. Ricordo che un mio amico faceva già il DJ all’epoca e aveva tutti i dischi della Roulé, l’etichetta di Thomas Bangalter [Caschetto argento dei Daft Punk, ndr]. Quindi ho fatto un bel po’ di pratica con quei dischi, molto prima di mettere musica nei club. Prima bisognava imparare a mettere a tempo. In più, in quel periodo, tipo il ’99, non si ascoltava molto quella musica dalle mie parti, specialmente a Brighton. Erano tutti interessati più alla drum n bass, garage, UK bass. Insomma, i break. Quindi i primi party suonavo più roba del genere. Insieme a me c’erano anche Mumdance e High Rankin. Tanto tempo fa, avevamo 17 anni.

È strano come un artista come te, che ha sempre viaggiato su più generi senza mai fossilizzarsi su uno solo, venga da Brighton. Un posto che tipo 50 anni fa veniva usato come campo di battaglia fra mod e rocker. Si davano appuntamento sulla spiaggia e si riempivano di schiaffi soltanto perché ascoltavano diversi tipi di musica.
Anche quando avevo 17 anni io volavano gli schiaffi. Ma era più una lotta interna fra promoter drum n bass. Facevano i gangster. Ora per fortuna a nessuno importa quello che ascolti. Puoi farlo in tutta libertà. Una volta avevi due scelte, o eri mod o rocker. Oggi esistono migliaia di sottoculture, quindi alla fine non ne esiste più una vera, così solida.

Saresti un mod o un rocker tu?
Decisamente mod, senza dubbio. Sono cresciuto con il parka e guardando Quadrophenia. Sento molto più mia l’estetica mod.

Come mai non ci sono pezzi strumentali nel disco?
Ho cercato di dimostrare le mie doti da producer più che beatmaker. Il che vuol dire anche saper scegliere la persona giusta per cantare o rappare il brano. Avrei tranquillamente potuto inserire strumentali, ma ero più interessato a un disco vocale. Comunque non lo chiamerei un album. OK, non è nemmeno un mixtape perché ne stamperò delle copie proprio come un disco vero. Ma per chiamarlo album secondo me deve avere un tema, una storia unica che metta in connessione i brani.

Deve avere un concept.
Sì, che è un concetto che ultimamente sta andando un po’ a farsi benedire. Gente come Drake mette fuori album di 23 brani che non hanno un nesso l’uno con l’altro. Nessuna connessione narrativa, solo una collezione di tanti pezzi. L’unico nesso che collega i brani del mio nuovo disco sono io, il produttore, ma non è abbastanza per poterlo chiamare album. La prima cosa che faccio quando incontro i cantanti o rapper è chiedere loro di cosa vogliono parlare nel pezzo. Così costruisco uno strumentale apposta per quel brano. Però senza pensare a un fil rouge che possa continuare lungo tutta la tracklist. Sono tante micro-storie. E ti dirò che all’inizio, prima di mettermi al lavoro sulle canzoni, mi sono chiesto più volte: “Cosa faccio? Faccio L-vis di Night Slugs? O L-vis più concettuale?” Alla fine ne sono uscito. Mi sono semplicemente messo lì a scrivere canzoni.

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