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Il posto dei Coma_Cose

Sono nati dalla breccia aperta da Carl Brave x Franco 126, ma hanno preso una strada tutta loro, citando De Gregori e Battisti nel loro frullato di indie, funk e rap. Tutto con un approccio nuovo, leggero, e che funziona.

Il posto dei Coma_Cose

La breccia in cui si sono infilati i Coma_Cose (Fausto e California, da Milano alle nostre playlist; il resto lo saltiamo perché tanto lo sapete già) è quella aperta al grande pubblico nella primavera dello scorso anno da Carl Brave e Franco126. La breccia, per semplicità, di quel crossover sulla carta impossibile fra indie(-pop) e hip-hop. Due mondi diametralmente opposti, prima di allora, che sembravano sempre più trincerati nello snobismo reciproco, e che invece Polaroid è riuscito a far convergere in una soluzione ibrida e luccicante, nella convivenza pacifica, mandando in tilt etichette, playlist e stereotipi.

La formula, anche qui, la conosciamo bene tutti: hip-hop alla radice, al nocciolo, ma anche basi morbide e suonate, inclinazioni melodiche con ritornelli catchy da cantare a squarciagola, oltre a uno storytelling più vicino al quotidiano disincanto dell’indie italiano più recente che all’estetica hip-hop. Fondamentalmente, è la scia in cui si sono inseriti, in maniera più o meno contemporanea, anche i vari Liberato e Frah Quintale.

È un preambolo in ogni caso necessario, questo, perché traccia anche il perimetro in cui si inseriscono le radici dei Coma_Cose, per poi evolversi in una direzione diversa, in un albero rovesciato che cresce verso l’altra parte del cielo. In una dimensione personale, insomma, che tende a liberarsi con disinvoltura di ogni definizione.

Se l’atteggiamento alla base è, infatti, lo stesso, la convergenza stilistica che portano avanti è molto più spinta di quella dei compagni di “genere”. In loro, di fatto, c’è poco di indie, poco di hip-hop; si tratta giusto di linee guida, di variabili del piano cartesiano in cui (provare a) piazzare il loro puntino. Tutto, piuttosto, è affogato in centinaia di sfumature diverse, correnti lontane, suggestioni distanti nel tempo e nello spazio, nella convivenza di linguaggi e stili almeno sulla carta impossibili da coniugare. In Deserto, uno loro primi singoli, c’è una frase che recita “il mio artista rap preferito è De Gregori”, e in quest’accostamento – per alcuni persino blasfemo – e nell’armonia che lo tiene in piede c’è gran parte dell’anima del progetto.

Ma qual è, quindi, il posto dei Coma_Cose? La verità è che, se si seguono le tracce, gli indizi sparpagliati dai due, c’è da uscirne matti. Lo storytelling, ad esempio, a volte segue l’estetica puramente hip-hop della corsa verso il riscatto (Jugoslavia), mentre altre volte l’immaginario tipico dell’indie italiano (Pakistan), degli infiniti micro-frammenti del quotidiano sospesi fra introspezione e racconto, senza disdegnare ammiccamenti ai cantautori tradizionali. Il tutto, ovviamente, in un incontro continuo fra “l’alto” e la strada, fra i “rave a Le Colonne” e la “dolce Venere di Rimmel” di De Gregori, amplificato da giochi di parole fra l’arguzia e il cazzeggio (“se la pioggia forse transitiva / io ti temporalo”, “mangiando una scuola / coi libri di mela”) e da un citazionismo spinto ed esplicito, prima solo lirico e da un po’ anche nella scelta dei suoni.

Così, nel loro mondo può capitare che il vintage pastellato di Battisti incontri, in maniera del tutto naturale, il flow nella sofisticata Anima lattina – titolo programmatico, altroché -, o che, ascoltando l’inno Post concerto, si abbia la sensazione di trovarsi fra old school rap, funk e pop contemporaneo, bagnati dal sole di un testo sottile sottile. Se poi Pakistan lega con eleganza un pop da pianoforte, i clap del ritornello e una citazione proprio di Rimmel, Deserto viaggia con un inciso melodico e seducente, l’ultima Nudo integrale – magari non la più bella, sicuramente la più compiuta – sintetizza tutto questo trasponendolo su un piano mai così radiofonico.

Pur di trovar loro una definizione, una collocazione per una playlist “di genere”, Spotify ha ideato il termine “graffiti pop” (una sorta di street pop dalle influenze funk, hip-hop e indie) che, per approssimazione, per ora può anche starci. Ma la verità è che i Coma_Cose sono un frullatore continuo, un blob pronto a inglobare sempre qualcosa di nuovo, spostando a ogni singolo la sua collocazione un metro più in là.

Non sono eredi di nessuno: non sono popstar, rapper o cantautori. Non hanno riferimenti, ma rubano direttamente dalla fonte, citano in maniera integrale, trapiantano, rivisitano in assoluta libertà linguaggi e culture, guidati da un’urgenza espressiva che, per loro stessa ammissione, è la sola e unica linea guida del progetto. A ogni ascolto, a ogni pezzo, spiazzano, ma non per avanguardismo, bensì per l’audacia del patchanka che creano, per l’accostamento impronosticabile di elementi familiari ma distanti, collocati negli angoli opposti delle nostre menti eppure lì riuniti e conniventi.

Sono figli e padri dell’ultimo crash di generi, del tilt di etichette e definizioni sempre più frequente, del pubblico che si mischia e che non ha problemi a fare playlist con De Gregori e il primo Neffa, Carl Brave e “Anima Latina”. Sono, soprattutto, un approccio nuovo, che fa del citazionismo non una semplice aggiunta, ma uno slancio verso nuova musica. Insomma: nulla si crea, nulla si distrugge, ma tutto si trasforma. E con i Coma_Cose anche dannatamente bene.

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