Il figlio di Peter Tosh è in coma: la battaglia della sua famiglia | Rolling Stone Italia
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Il figlio di Peter Tosh è in coma: la battaglia della sua famiglia

Jawara McIntosh è stato ricoverato a febbraio dopo una rissa avvenuta in una prigione del New Jersey. Era detenuto per possesso di marijuana

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Se tutto fosse andato come doveva andare, Jawara McIntosh sarebbe a casa sua, nel Massachusetts, e assumerebbe cannabis legalmente (come vuole la sua religione, il rastafarianesimo). Si starebbe godendo l’estate con i suoi quattro figli e con la sua musica.

Al momento, invece, è in coma, ricoverato in un ospedale di Boston.

Il 21 febbraio 2017 McIntosh, musicista, attivista pro-marijuana e figlio della leggenda del reggae Peter Tosh, ha subito un trauma cerebrale durante una rissa. È stato colpito da Kyrie Charon Baum, un altro detenuto della prigione di Bergen County dove McIntosh stava scontando gli ultimi sei mesi di reclusione dopo la condanna per possesso di marijuana.

Non può muoversi né parlare. La sua famiglia lo visita ogni giorno: cantano, pregano, appendono fotografie dei suoi figli e leggono versi della Bibbia. La sua fede lo ha aiutato durante tutto il periodo di reclusione: ne parlava al telefono con la sorella, Niambe McIntosh, e gli altri detenuti lo visitavano per qualche consiglio spirituale, tanto da meritarsi il soprannome Bless.

«Mi chiamava dal carcere e mi chiedeva di leggergli alcuni passaggi delle scritture», dice la sorella a Rolling Stone. Jawara era abituato a leggere la Bibbia ogni sera con i suoi figli, e ha continuato anche dal carcere. La ragazza racconta di un padre devoto, bravissimo a farsi amare dai bambini: i nipoti – e molti dei figli dei suoi amici – lo chiamavano Zio Tosh, erano rapiti dalla sua personalità.

«La gente gli stava sempre attorno», dice Niambe ricordando la loro infanzia passata a Boston. «Andavamo a scuola insieme: io facevo il beat box e lui improvvisava delle rime. Poi ci siamo messi a fare i DJ: io ero la mente e decidevo tutte le canzoni, ma era lui a incantare il pubblico».

Lui si comportava come un attivista, non voleva patteggiare. Voleva combattere. Mi diceva: “ascolta, io sono il figlio di mio padre”

Melody Cunningham, la mamma, ricorda di un viaggio in Colorado: «Non c’era acqua, non c’era luce… non c’era niente e dovevi sopravvivere solo con le tue forze», dice. «Siamo arrivati a casa e ha detto: “Wow, ho davvero imparato ad apprezzare il mio letto”».

La famiglia di Jawara ha intrapreso una causa legale contro la prigione di Bergen County con l’accusa di non averlo protetto abbastanza. La richiesta è quella di inviare tutto il materiale disponibile su quello che è successo a febbraio. Niambe, nel frattempo, ha aperto una petizione su Change.org, vuole che il Dipartimento di Giustizia si occupi dell’accaduto. «Lo sceriffo è al lavoro per assicurarsi che la famiglia riceva giustizia e che eventi del genere non si ripetano mai più», dice William Schievella, direttore delle comunicazioni della polizia di Bergen County.

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Al momento Jawara è in coma in un ospedale di Boston. Questa foto è stata pubblicata dalla sorella insieme alla petizione su Change.org

Non è la prima volta che la famiglia di McIntosh ha a che fare con la violenza: suo padre è stato picchiato (quasi a morte) dalla polizia jamaicana a causa delle sue idee politiche, ed è per questo la battaglia per i diritti di Jawara ha un significato ancora più profondo. «Stanno lottando per lui», dice Jasmine Rand, l’avvocato che difende la famiglia. «Questa, però, è anche la famiglia di Peter Tosh, l’uomo che ha firmato Get Up, Stand Up, che ha combattuto per gli altri. I rastafariani credono di essere uno parte dell’altro: “io sono parte di mio fratello, io sono parte di mia sorella”. La famiglia lotta per Jawara come lotterebbe per chiunque altro».

Joseph Tully, l’avvocato che lo rappresenta, dice che l’aspetto più tragico della vicenda è che il ragazzo sarebbe stato rilasciato (in libertà vigilata) nel giro di poche settimane. «Ero già al lavoro per organizzare i controlli nel suo appartamento», dice.
L’avvocato sostiene che Jawara avrebbe preferito affrontare la sua ingiusta incarcerazione in un normale processo, ma il patteggiamento era la soluzione più sensata (l’alternativa sarebbe stata accettare la reclusione fino a 10 anni). «Lui si comportava come un attivista», dice. «Non voleva patteggiare, voleva combattere. Mi diceva: “ascolta, io sono il figlio di mio padre”».

Alla fine il ragazzo e l’avvocato hanno deciso per il patteggiamento. «Dal punto di vista umano è stata una scelta sbagliata, ma legalmente era la migliore decisione possibile», dice l’avvocato con la voce spezzata dall’emozione. Hanno scelto così perché il patteggiamento gli avrebbe consentito di scontare la pena in una prigione di contea, un posto teoricamente molto meno pericoloso di un carcere federale.

Jawara era anche al lavoro su alcuni progetti musicali: voleva pubblicare un album di cover di alcuni brani scritti dal padre. «Volevamo fare di Legalize It una specie di We Are the World della cannabis», dice il manager Brian Latture. In cantiere anche un album di inediti, che il ragazzo stava scrivendo con l’aiuto della madre, il suo punto di riferimento durante il processo creativo. «Mi chiamava Mother Rhythm e diceva: “Mamma devi ascoltare questa cosa che ho scritto”», dice la donna. «Era sempre motivato, non aveva bisogno di pensare a cosa scrivere. La musica arrivava all’improvviso nella sua testa, poi mi telefonava e mi faceva sentire tutto. Succedeva spesso, è così che lavorava».

La tragedia di Jawara non ha colpito solo la sua famiglia, ma tutto il mondo della musica. «Quello che faceva era di grande ispirazione per tutti. Vederlo così è davvero un peccato», dice. «Tutti preghiamo perché si riprenda presto, ma non penso che tornerà a cantare come faceva prima di febbraio. È una storia davvero triste».