Il Beaches Brew è un’oasi felice, sotto ogni aspetto. In un momento storico dove tutto è tensione e nulla (nemmeno i festival) viene risparmiato dalle polemiche—penso soltanto a quelle sui prezzi esorbitanti dei biglietti oppure quelle giustissime sulla netta predominanza di artisti maschilli su quelli femminili—a Marina di Ravenna invece si punta su un evento gratis, aperto a tutti, multiculturale e con una proporzione fra artiste e artisti che per pochissimo non raggiunge il 50-50.
Ci è voluto del coraggio, soprattutto nella proposta artistica che quest’anno ha uno spettro vastissimo nei 4 giorni di festival. «Abbiamo voluto rischiare ancora una volta non sapendo esattamente come il pubblico di Beaches Brew avrebbe accolto questa decisa evoluzione nel programma artistico» spiega Chris Angiolini, direttore artistico del festival e di Bronson, l’associazione culturale che lo organizza. «È andata esattamente come ce lo eravamo immaginati: un festival in cui artisti, staff e un pubblico entusiasta rimangono spettatori perché la musica e la libertà di espressione rimangono i veri protagonisti.»
E infatti come ogni anno la gente è arrivata a frotte da tutti gli angoli d’Europa. Tanti, giovani, agitati ma presi bene, spesso conciati in maniera eccentrica e truccati coi brillantini attorno agli occhi. Sembra un po’ come una versione ridotta, domestica, intima e informale del Primavera Sound. Dimensioni e portata ben diverse, ovvio, ma ambiente e pubblico molto simili. Forse anche perché entrambi in riva al mare.
E c’eravamo anche noi, giovedì 7, all’ultima delle quattro serate all’Hana Bi, lo stabilimento balneare che ogni anno accoglie le migliaia di agitati del festival. Sotto una minaccia un po’ onnipresente ma mai del tutto concretizzata della pioggia, Nadah El Shazly e la sua band hanno dato un bel boost iniziale partendo sulla spiaggia con un avnt-rock psichedelico di questa nouvelle vague egiziana che sta facendo tanto parlare nei salotti musicali. Fortuna che a lei, il tastierista, il contrabbassista e la batteria, dei salotti musicali fregava meno di zero. Quindi tanta improvvisazione, sorrisi e pure qualche assolo di batteria (molto bravo il biondino).
Menzione speciale però va al palco coperto all’ingresso dell’Hana Bi. Fungeva da alternativa a quello principale sulla spiaggia e, mentre in riva al mare si alternavano il footwork marziano di Jlin e l’eccentrico art pop in chiave world music dei Tune-Yards, al riparo da vento e sabbia la gente letteralmente sudava, si dimenava davanti agli artisti più allucinanti del festival.
Immaginatevi una combo composta da Rizan Said, il tastierista tarantolato di Omar Souleyman accompagnato stavolta da un cantante con il cellulare perennemente in mano, e Flohio, una MC londinese con una cazzimma che oscura completamente quella del suo DJ, un marcantonio già bello incazzato di suo. Quindi, prima un ipnotico dabke elettronico sparato da tastiere suonate così velocemente che a momenti prendevano fuoco, e poi il più bello dei grime londinesi, che avremmo voluto non finisse ma. Come del resto tutto il Beaches Brew.
PS. Il premio personaggio del festival va dritto all’onnipresente delfino gonfiabile, sempre in prima fila e foriero di buonumore. Ecco qui sotto alcuni dei suoi momenti più alti.