Il 2016 è l'anno della svolta della discografia | Rolling Stone Italia
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Il 2016 è l’anno della svolta della discografia

Dopo il tracollo iniziato nel 2000, e dopo aver toccato il fondo nel 2014, ora il mercato discografico si sta riprendendo – anche se al momento solo negli USA. Tutto merito dello streaming

Foto di Marco Casino

Foto di Marco Casino

Se ti metti a pensare ai settori maggiormente colpiti dalla crisi, senza dubbio te ne vengono in mente due: del primo (sigh) fa parte anche la pagina che stai leggendo, mentre il secondo è ciò di cui di solito leggi qui. Una combo micidiale da toccare ferro per chi ti sta scrivendo, ma non tutto è perduto. L’industria musicale, si sa, da anni vive una lenta e inesorabile decrescita nel fatturato. A guardarla in modo analitico, ha conosciuto il massimo splendore nel 1999, quando on air suonavano Believe di Cher, No scrubs delle TLC, Angel of Mine di Monica e Livin’ La Vida Loca di Ricky Martin, per intenderci. Che fossero canzoni da perfetta soundtrack della decadenza non si discute: infatti, da quel momento, è iniziato il crollo del mercato. Inarrestabile, cattivo, fino a portare tutta l’industria mondiale sotto la soglia dei 15 miliardi di dollari per la prima volta nella sua storia, nel 2014. Dopo un 2015 in più lenta discesa, però, ecco l’anno della svolta. Il 2016.

Nei primi sei mesi di quest’anno, infatti, si sta registrando una lenta ripresa, per lo meno oltreoceano. Ma si sa che gli Stati Uniti, da sempre, dettano i tempi del mercato globale. Stando alla RIAA, infatti, il mercato americano ha siglato un +8,4% rispetto allo stesso periodo dello scorso anno, portandosi alla bellezza di 3,4 miliardi di dollari.

Se ti stai chiedendo cosa abbia fatto la differenza, la risposta è molto semplice: i servizi streaming. Apple Music, a poco più di un anno dal lancio, vanta già ben 17 milioni di abbonati, mentre Spotify si è portato addirittura a 40 milioni. Tutte belle notizie, giusto? In realtà, a un’analisi più attenta, c’è ancora molta strada da fare per poter parlare di ripresa. Per esempio, l’industria generata dall’acquisto dei brani via iTunes è scesa a un miliardo di dollari, con un calo del 17%. E anche il mercato dei CD, che continua a sopravvivere benino negli Stati Uniti, è sceso del 20%.

Stando a Cary Sherman, pezzo grosso della Recording Industry Association of American, il vero problema non è nel consumo di musica, ma nella scarsità di proventi che vengono girati agli artisti. In soldoni, Sherman fa notare che nei primi sei mesi del 2016 ci sono state circa 209 miliardi di riproduzioni musicali in streaming, che avrebbero dovuto generare molti più guadagni di quelli effettivi. Questo significa che vi sono molti servizi che erogano musica senza riconoscere nulla ai rispettivi artisti. O, in altri casi, cifre irrisorie, e qui l’attacco è diretto a Youtube. Il portale di proprietà di Google, infatti, è utilizzato dall’82% dei suoi moltissimi utenti per ascoltare musica, eppure ha contribuito ai primi sei mesi del 2016 per appena 195 milioni di dollari. Pensa che, sempre stando a RIAA, Spotify paga in media 7 dollari ogni 1000 riproduzioni di un brano, mentre Youtube appena 1 dollaro.

Insomma, da questa breve analisi pare chiaro che l’industria della musica potrebbe aver trovato il modo per risalire la china, ma è necessario uno sforzo da parte di chi la sfrutta per portare avanti il proprio business. O qualche Legge che metta, finalmente, le cose in chiaro.