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I Wailers, nel nome di Bob

Alcuni di loro non hanno incontrato Marley, altri sono cresciuti con lui. Ecco come la dinastia è arrivata a oggi, pronta per esibirsi all'Home Festival

I Wailers, nel nome di Bob

I Wailers sono una vera dinastia. Il patriarca è Bob Marley, che li ha fondati con Bunny Livingston e Peter Tosh. I discendenti sono i fratelli Barrett, Carly (batteria) e Aston (basso), decani del gruppo, che insieme alle coriste I Threes ne hanno raccolto le redini dopo la morte di Bob nel 1981.

La nuova generazione è quella di Aston Barrett Jr, che ha preso il posto dello zio Carly e dopo un periodo burrascoso ha aiutato a riunire i membri originali, o i loro eredi, per ripartire in tour. «Era destino che io entrassi nella band: mio padre e mio zio mi hanno cresciuto per suonare come un Wailer», dice orgoglioso. «Vale per tutti i membri più giovani; la voce solista è mio cugino Joshua Barrett e ai cori c’è Shema McGregor, figlia di Judy Mowatt delle I Threes».

«Ricoprire il ruolo che è stato di Bob Marley è una responsabilità enorme, una missione», spiega Joshua, cresciuto in New Jersey e reclutato dopo una lunga gavetta in altre band reggae. «I Wailers non devono solo suonare bene; devono incarnare lo spirito rastafari sul palco, portare gioia e armonia tra il pubblico». Né Aston né David hanno fatto in tempo a conoscere Bob, a differenza del chitarrista Donald Kinsey, cresciuto in America con profonde radici blues, che dei Wailers fa parte fin dagli anni ’70.

«Di lui mi colpì subito la spiritualità, la passione, la voglia di fare del bene», racconta. «Andavamo in giro per Kingston a distribuire cibo e medicine alla gente. Non si tirò indietro neanche dopo che nel 1976 provarono a ucciderlo, due giorni prima del concerto di solidarietà Smile Jamaica: ci presentammo comunque sul palco e suonammo davanti a 80mila persone, nonostante i rischi».

Non a caso quello dei Wailers è il cosiddetto roots reggae, incentrato sui valori positivi e sulla religione rasta; negli anni ha perso parecchio terreno rispetto alla dancehall, che ha più in comune con l’hip hop da club che con Redemption Song. «La musica di oggi ci piace poco, suona tutta uguale», ammette Aston. «Ma negli ultimi anni la situazione sta migliorando, anche grazie ad artisti come il vostro Alborosie, con cui stiamo lavorando in studio».

Per il momento, però, la priorità resta il tour. «Quando vengono ai nostri concerti, tutti ci dicono che è come se Bob Marley fosse sul palco con noi. Per noi è proprio così».

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