I migliori album degli anni Novanta, dal 40 al 21 | Rolling Stone Italia
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I migliori album degli anni Novanta, dal 40 al 21

La penultima parte della classifica dei migliori album del decennio secondo Rolling Stone America

Radiohead. Foto: Stampa

40. NEIL YOUNG
Harvest Moon
Reprise, 1992

Il titolo ricorda Harvest, l’album che Neil Young ha fatto due decenni prima, e anche la musica riprende quel soft-rock dal sapore country. Harvest è stato un morbido bestseller, un pit-stop inconsueto in un decennio di dischi profondamente personali e a volte eccentrici, e anche Harvest Moon sembra stato fatto per passare dei pigri pomeriggi a dondolarsi sull’amaca. Ma dietro alla sua placida superficie, ci sono le ferite della mezza età, un’epoca in cui tenersi stretto un amore (vedi la title track) è molto più difficile che trovarne uno nuovo.

39. MY BLOODY VALENTINE
Loveless
Sire, 1991

Tecnicamente non è un album strumentale, perché c’è la voce sognante di Bilinda Butcher e ogni tanto canta anche Kevin Shields. Ma il fatto che le voci siano un suono più che un linguaggio definisce un nuovo paradigma: non c’è più bisogno di band sperimentali e pomposi poeti, le tessiture di suoni, dissonanti come tempeste elettriche o morbide come piume, possono avere significato e colpire allo stomaco. I My Bloody Valentine affermano questa verità, aprono la strada al post-rock, all’elettronica, ai Garbage e a Beck, e poi svaniscono nell’etere che hanno generato. Anche se non fossero mai tornati, Loveless sarebbe stato abbastanza.

38. SOUNDGARDEN
Superunknown
A&M, 1994

Il passo in avanti dei Soundgarden verso l’immortalità rock&roll arriva tardi, dopo aver fatto magie con la Sub Pop e la SST Records e dopo aver vinto un disco di platino con Badmotorfinger nel 1991, ma la bellezza grezza di questo disco gli dà la corona di “Led Zeppelin degli anni ’90”. Una band heavy metal con credibilità punk-rock, in cui Kim Thayil, Ben Shepherd e Matt Cameron colpiscono l’angoscia di Chris Cornell in pezzi come Fell on Black Days, Like Suicide e Black Hole Sun, costruendo una scultura che si avvicina molto al suono più potente uscito da Seattle.

37. JOHNNY CASH
American Recordings
American, 1994

È sempre strano quando un artista, dopo 40 anni di carriera, tira fuori un capolavoro indiscutibile. Johnny Cash lo ha fatto. American Recordings nasce dall’incontro con Rick Rubin, che ha l’intuizione geniale di capire che la voce unica di Cash, una chitarra acustica e alcune grandi canzoni sono un’occasione da non perdere. I pezzi di Cash (Drive On) sono in linea con una selezione che comprende Tom Waits, Leonard Cohen e persino Glenn Danzig. Un disco spoglio, commovente e a tratti divertente. La cosa migliore è che restituisce a un maestro una gloria meritata.

36. A TRIBE CALLED QUEST
The Low End Theory
Jive, 1991

A Tribe Called Quest, con il loro hip hop senza ego, fanno ballare con un delicato suono jazz, colpiscono con fiati e basso (suonati dal veterano jazz Ron Carter) e rilassano con il loro approccio tranquillo. Il produttore Ali Shaheed Muhammad lucida il mix e MC Phife è una grande seconda voce in rime sull’industria musicale e le ragazze (“Tanya, Tameeka / Sharon, Karen / Tina, Stacy / Julie, Tracy”), ma lo show è tutto di Q-Tip. La sua voce nasale leggera e deliziosa, il suo flow liquido, caldo e confortevole come una coperta fanno sembrare questo disco una conversazione con un vecchio amico.

35. WILCO
Being There
Reprise, 1996

19 tracce sparse su due cd: ogni disco funziona come un’entità separata e, insieme, le due metà aspirano alla stessa ampiezza coraggiosa di London Calling o Exile on Main Street, racconti personali forgiati in una stupefacente varietà di stili. Being There è il prodotto di una versatilità ambiziosa: i Wilco esplorano il funk in stile Band in Kingpin, saltano come i Beatles in una sala da ballo in Why Would You Wanna Live ed evocano un’atmosfera di mistero in Hotel Arizona.

34. OASIS
(What’s the Story) Morning Glory?
Epic, 1995

Il brit pop era all’apice, con Blur e Oasis che si scambiano insulti sulla stampa praticamente ogni giorno, quando gli Oasis escono con uno degli album rock più giganteschi degli anni ’90, inseguendo i propri sogni di gloria con una fede cieca. Nel loro secondo album i litigiosi fratelli Gallagher accettano i paragoni con i Rolling Stones e i Beatles, ma fanno anche un passo avanti e si impongono come una grinta rock&roll autorevole in pezzi come Roll With It e il glorioso classico Wonderwall.

33. EMINEM
The Slim Shady LP
Aftermath/Interscope, 1999

Il disco con cui Eminem si presenta come lo sfigato bianco pazzo. Nell’hip hop non si era mai sentito niente del genere: rime folli su basi di Dr.Dre che fanno guadagnare a Eminem rispetto, successo, fama e (pure!) una denuncia da parte di sua madre. Slim Shady è un album comico, una sessione di psicoterapia e un surreale horror show, confezionato in un tour-de-force da MC, che lascia tutti a bocca aperta.

32. NINE INCH NAILS
The Downward Spiral
Nothing/TVT/Interscope, 1994

Trent Reznor ha l’istinto di un produttore di B-Movie di Hollywood: sfrutta al massimo il fatto di aver raccontato che questo disco è stato registrato a Los Angeles nella stessa villa in cui Sharon Tate è stata uccisa da Charles Manson e spinge migliaia di teenager a cantare in coro l’indimenticabile ritornello di Closer: “Voglio fotterti come un animale”. Un tuffo nel malcontento più profondo, pacato e intenso come I Do Not Want This o terrorizzante e meccanico come la title-track, in cui Reznor mostra le varie gradazioni di grigio che compongono la disperazione più nera.

31. BOB DYLAN
Time Out of Mind
Columbia, 1997

Dopo aver cambiato maschera per più di tre decenni, Bob Dylan ne trova una che lo soddisfa, quella del bluesman perseguitato dalla morte. “Sono stufo dell’amore”, mormora nel primo pezzo, e sembra proprio così. Un viaggio notturno fatto solo di strada e nessuna meta, tutto nei sobborghi e senza mai toccare la città. L’uomo dagli occhi tristi di Highlands, l’epico finale da 16 minuti, sta ancora camminando quando il disco finisce, tentando disperatamente di sfuggire alla morte, folle, stanco e quasi fuori dal tempo.

30. GREEN DAY
Dookie
Reprise, 1994

Milioni di noi trovano il tempo di ascoltare Billie Joe e la sua band di mocciosi punk della Bay Area che conquistano l’America con chitarre veloci, batteria dinamica e il più falso accento inglese mai registrato. Le loro hit stanno bene insieme come una pila di Pringles: Basket Case decolla con una melodia che ti frega ogni volta, Longview e When I Come Around sfogano lo spirito giovanile del punk con dei ritornelli pieni di groove. I Green Day prendono il revival punk californiano e lo portano alla Middle America. E non mostrano alcun segno di voler crescere.

29. MADONNA
Ray of Light
Maverick/Warner Bros., 1998

In Ray of Light Madonna torna finalmente “into the groove” e spara fuori i beat dance che l’hanno fatta diventare una star fin dall’inizio, realizzando il suo album più sfacciatamente disco dai tempi di You Can Dance. La sua resurrezione ritmica assomiglia a una trasformazione spirituale e, dato che accompagna la sua scoperta dello yoga e della maternità, probabilmente lo è stata. William Orbit accende le macchine techno, ma è la passionalità di Madonna a dare la botta più forte in pezzi come Drowned World/Substitute for Love e Little Star. Nella title track Madonna fa una scenata sulla pista da ballo globale, come se non se ne fosse mai andata.

28. WU-TANG CLAN
Enter the Wu-Tang (36 Chambers)
Loud/RCA, 1993

I nove del Wu Tang Clan, tra cui Ol’Dirty Bastard, GZA e Method Man, esplodono da Staten Island catturando il suono del caos: le basi di RZA sono talmente grezze e aspre da ricordare i tempi prima del sampler, quando l’hip hop veniva dalle cantine e trasudava colla, rime sullo spaccio di droga, vita nei project, risse e arti marziali e flow furiosi che ruggiscono dalle casse. I Wu hanno un’aria selvaggia, che promette reazioni violente a chiunque provi a sfidarli e anche a chi non ci pensa nemmeno. Una generazione di fan impara a memoria ogni parola.

27. RAGE AGAINST THE MACHINE
Rage Against the Machine
Epic, 1992

“La rabbia è un dono”, proclama Zack de la Rocha con un sospiro velenoso in Freedom, mentre la band diffonde il messaggio con potenza elettrica in tutto il disco. I Rage dicono la loro contro l’autoritarismo e prendono la mira con il rap di De la Rocha e la chitarra contundente di Tom Morello, testi molto dettagliati e una forza sorprendente. Questo mix di radicalismo politico e potenza metal è un’anomalia nell’egocentrismo annoiato dell’Anno del Grunge e con il suo successo commerciale riafferma la fondamentale potenza del rock come arma di protesta. Grazie ai Rage, la sovversione, nella grande tradizione dei Clash e degli MC5, è viva nel mainstream.

26. NAS
Illmatic
Columbia, 1994

Dai leggendari project di Queensbridge a N.Y. allo studio di registrazione con una voce bollente, un flow morbido come il burro, occhi da bambinone e un amore puro per la musica. Nas, l’intellettuale della strada, alza il livello degli MC negli anni ’90, lavora con i migliori produttori di New York del momento (DJ Premier, Large Professor) e, dal punto di vista dei testi, tiene sempre un occhio alla strada, alla prigione e ai sogni di ogni uomo del ghetto, sia che stia campionando un brano dal film culto dell’hip hop Wild Style, sia che stia offrendo un featuring a suo padre, il trombettista jazz Olu Dara.

25. SUBLIME
Sublime
Gasoline Alley/MCA, 1996

Uno dei successi più strani del decennio esce poco dopo la morte del chitarrista e cantante Bradley Nowell, continuando poi a regalare una hit dopo l’altra. Semplice pop californiano pieno di ska, dub, punk e folk fatto da una band di re del riddim giamaicano originari di Long Beach, che possono essere disordinati, ma tengono bene il ritmo specialmente nel pezzo acustico What I Got che riesce a fondere i Grateful Dead con il beat britannico. Il successo dei Sublime è un omaggio alla memoria di Nowell, ma ancora di più alla sua sezione ritmica.

24. PAVEMENT
Slanted and Enchanted
Matador, 1992

I Pavement hanno fatto passare lo spirito di Buddy Holly in uno degli amplificatori distrutti di Lou Reed, portando stile in quantità a una scena indie-rock che moriva dalla voglia di innamorarsi. Stephen Malkmus ha le canzoni giuste per trasformare il suo art-punk fatto in casa in una fantasia californiana di ragazze e ra-gazzi che sognano proprio lì dove finisce l’estate. Slanted and Enchanted è il suono di ragazzi dei sobborghi che amano i Velvet Underground, ma non si sono mai domandati cosa cosa voglia dire il loro pezzo The Black Angel’s Death Song. Le chitarre scordate non saranno più le stesse dopo questo disco.

23. SMASHING PUMPKINS
Siamese Dream
Virgin, 1993

Il leader degli Smashing Pumpkins Billy Corgan ha spinto così tanto al limite l’ossessione dell’idea del controllo della qualità da suonare da solo tutte le parti di basso e chitarra, per il disappunto di James Iha e D’Arcy.
Siamese Dream, coprodotto da Butch Vig, è la versione idealizzata e positiva della psichedelia montante e piena di rabbia della band (la gloriosa espansione di Silverfuck dal vivo è la prova che Corgan non può fare tutto da solo). Il fatto che sia rimasto come una delle testimonianze più durevoli dell’alt-rock è merito della astuta visione commerciale di Corgan, ma anche del puro potere della musica suonata bene, chiunque l’abbia suonata.

22. JEFF BUCKLEY
Grace
Columbia, 1994

Benedetto dal pedigree (suo padre era l’icona folk-pop anni ’60 Tim Buckley), Jeff Buckley era anche perseguitato dal perfezionismo. Aveva appena buttato via il suo secondo album ed era pronto a ricominciare, quando è annegato a Memphis nel maggio 1997. Ha lasciato Grace come l’unico disco della sua breve vita, ma soprattutto ha lasciato una grande eredità: la chitarra serpeggiante e il cantato ricco di Mojo Pin e Grace, il modo in cui ha trasformato Hallelujah di Leonard Cohen in una delicata preghiera personale. Un disco meraviglioso, con un titolo azzeccato, per un artista incredibilmente dotato, che se ne è andato troppo presto.

21. RADIOHEAD
The Bends
Capitol, 1995

In teoria i Radiohead avrebbero dovuto sparire dopo il successo fortuito di Creep, lasciando dietro di loro solo qualche piacevole ricordo dei gorgheggi di Thom Yorke simili a un Martin Short post-electroshock e di quell’attacco “wukku wukku” di chitarra. Invece The Bends ha scioccato tutti con la sua gloria psichedelica a tutto schermo, facendo diventare i Radiohead le nuove divinità dell’art-rock britannico in puro stile anni ’70. In pezzi epici da big-bang apocalittico come High and Dry, il lamento da coro della chiesa di Yorke si avvolge intorno alle evoluzioni eroiche di Jonny Greenwood. Gli U2 sarebbero persino stati disposti a spacciare crack alle suore pur di fare questo disco.