I Fleet Foxes e il pop litigarello | Rolling Stone Italia
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I Fleet Foxes e il pop litigarello

La band suonerà domani sera a 'Ferrara sotto le stelle'. Il frontman Robin Pecknold ci parla di come ha ritrovato la voglia di lavorare, e di un certo ex batterista

I Fleet Foxes e il pop litigarello

Da quando si è tagliato barba e capelli (la moda hipster sembra passata, per fortuna), Robin Pecknold, leader dei Fleet Foxes (sopra, al centro), ha preso ad assomigliare un po’ a Paul Rudd, l’attore di Ant-Man e Questi sono i 40 – il classico americano con faccia da bravo ragazzo, occhi verdi e un sorriso timido che, nel suo caso, nasconde un grande talento.

Quando lo incontro, si trova a Milano per promuovere il terzo disco della band, Crack-Up, proprio nei giorni del Salone del Mobile, quando la città dà il suo meglio – o il peggio, se uno soffre di agorafobia. Pecknold comunque sembra contento, anche se non è uno che lasci trapelare molto di sé.

Il nuovo album arriva sei anni dopo il precedente Helplessness Blues. Nel frattempo, per i Fleet Foxes e per Pecknold sono cambiate molte cose. Nel 2012 il batterista Josh Tillman, dopo anni di rapporti difficili con il resto della band, ha salutato tutti e se n’è andato per la sua strada, diventando il Father John Misty oggi celebrato come una sorta di coscienza satirica dello stardom americano. (Il suo ultimo disco, Pure Comedy, è stato pubblicato lo scorso aprile e ha ricevuto lodi universali).

È anche per questa separazione, forse, che nel 2013 i Fleet Foxes hanno deciso di prendersi una pausa. Pecknold si è trasferito a New York per iscriversi alla Columbia University, e solo lo scorso anno la band è tornata in studio per registrare Crack-Up. Il risultato vale la lunga attesa: il nuovo disco sembra una sintesi perfetta tra la solarità del primo album omonimo e le atmosfere più dark del secondo.

Se nel 2008 il neofolk dei Fleet Foxes poteva anche andare di moda, nel 2017 canzoni di Crack-Up come Kept Woman e On Another Ocean (January / June) suonano semplicemente classiche, originali, ma ben inscritte nella tradizione pop americana, dai Beach Boys a Crosby, Stills & Nash, da Neil Young a Simon & Garfunkel, per risalire fino ad Arcade Fire, Animal Collective e Grizzly Bear.

La cosa più interessante delle canzoni dei Fleet Foxes è che non sai mai dove ti porteranno: partono in un modo, ma prendono spesso svolte improvvise. Anche i titoli sono spesso divisi in più parti: «Riflettono i diversi aspetti del mio modo di scrivere, le caratteristiche di ogni componente della band», dice Pecknold.

Il primo disco era idealistico, il secondo arrabbiato. ‘Crack-Up’ è sia realistico che fantastico

Com’è cambiato il suono rispetto ai due album precedenti? «Di recente siamo tornati a suonare le vecchie canzoni, dopo anni. Ci siamo resi conto che le nuove hanno qualcosa di diverso. C’è una sorta di grazia aggiuntiva… Hanno più luce», dice. «Fleet Foxes era idealistico. Il secondo arrabbiato ed emotivo», continua, «Questo mi sembra realistico per certi aspetti, fantastico altri. E più teatrale: ho molte associazioni visive legate a questo album».

Pecknold e soci hanno cercato di registrare l’album nel 2013, salvo poi rinunciare e lasciare in stand-by il tutto. Cosa ha dato la convinzione per terminarlo, questa volta? «L’università: i mesi passati a studiare e a scrivere mi hanno dato finalmente un’etica del lavoro. Prima ero sempre stato pigro: dopo qualche giorno di fatica dicevo: “Dio, come sono stanco”, e mi mettevo sul divano a guardare la tv. Invece adesso ho scoperto un’energia nuova: registrare canzoni per tutto il giorno mi sembra una cosa divertente. Devi metterti giù e sgobbare, se vuoi fare bene. In qualsiasi campo. Non si scappa».

Sbaglia il sottoscritto a vedere un’interessante corrispondenza tra il ritorno dei Fleet Foxes e la consacrazione di Father John Misty? Due personaggi, Pecknold e Tillmann, che non potrebbero essere più diversi: il primo è serio, introverso e non vede l’ora di uscire dai riflettori per nascondersi dentro le proprie canzoni. Il secondo è ironico, melodrammatico e non ha paura di sfruttare il proprio personaggio pubblico.

Di recente, in un’intervista su questo giornale, Tillman ha definito una conversazione tra Pecknold e David Longstreth, frontman dei Dirty Projectors – tema: lo stato dell’indie rock – “inutile, pretenziosa e iper-cerebrale, tra due persone che hanno perso il contatto con la realtà”.

Chiedo: è in buoni rapporti con Tillman? «Non siamo in cattivi rapporti. Semplicemente non ci parliamo. Non abbiamo un rapporto», spiega. A me Father John Misty sembra una versione cinica e un po’ figlia di puttana (in senso buono) dei Fleet Foxes – Pecknold non commenta, però scoppia a ridere. Insisto: ha mai rimpianto anche solo per un momento di non avere più un talento come Tillman dentro la band? «No», risponde laconico. «Per niente», aggiunge, già più sulla difensiva.

Ma gli opposti, è noto, non possono fare a meno di attrarsi a vicenda. E forse in futuro Pecknold e Tillman, queste due stelle lontane del pop contemporaneo, decideranno di tornare a parlarsi e fare musica insieme. Noi non ci stupiremmo troppo.