I-Days, giorno 2. Pearl Jam: verità, vino e passione | Rolling Stone Italia
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I-Days, giorno 2. Pearl Jam: verità, vino e passione

Eddie Vedder si aggrappa al microfono e sulle note della seconda strofa di 'Release' dice in italiano: «Ho bisogno del vostro aiuto, ho bisogno della vostra voce».

I-Days, giorno 2. Pearl Jam: verità, vino e passione

«Quando canto cerco di risolvere dei misteri. Gli stessi che cercavo di risolvere 25 anni fa». Eddie Vedder è la missione della verità, intrisa di vino, incendiata dalla rabbia di uno sguardo acceso nel volto segnato dagli anni, portata avanti dalla band che rappresenta il rock’n’roll dopo il rock’n’roll.

Dopo il concerto solista a Firenze in cui si è ritrovato senza saperlo a suonare da headliner (con 40.000 persone incantate dalla sua voce, dalla sua scelta di cover e dalle stelle cadenti che passavano dietro al palco mentre cantava Imagine) Eddie Vedder ritrova i Pearl Jam e torna a Milano davanti a 70.000 persone.

Esce sul palco, prende in mano un foglio e dice in italiano: «Nel 1992 abbiamo suonato per la prima volta a Milano. Questa è la prima canzone che abbiamo fatto, ora la suoniamo di nuovo e siamo contenti di essere tornati» mentre Stone Gossard parte con l’arpeggio di chitarra di Release.

Eddie si aggrappa al microfono e sulle note della seconda strofa aggiunge, sempre in italiano: «Ho bisogno del vostro aiuto, ho bisogno della vostra voce», alza la mano al cielo e afferra il suo pubblico, lanciando il coro. È un appello all’empatia, al rock come esperienza collettiva in cui ci si aiuta attraverso la musica. Eddie Vedder è senza voce (una laringite lo ha costretto ad annullare una data a Londra e fino all’ultimo si è temuto per quelle del tour italiano che passerà dallo stadio di Padova il 24 giugno e dall’Olimpico di Roma il 26), il che vuol dire che canta come un cantante normale e non come il sovrumano incantatore di anime, capace di accarezzare e graffiare ogni volta che si avvicina al microfono, che è di solito.

Il concerto di Milano è più breve di quello a cui i Pearl Jam ci hanno abituati ma il senso dell’incontro con il pubblico è lo stesso, forse più forte. Eddie è ferito nella voce, ha bisogno delle persone per portare in alto le strofe trascendenti di Wishlist e Immortality, deve gettarsi nelle braccia della gente per dare l’energia a Given to Fly, Even Flow e Do the Evolution.

Il palco è uno spazio emotivo e lui lo occupa con la sua presenza magnetica, muscolare, in equilibrio precario su quei misteri che cerca di svelare ogni volta che si siede a scrivere una canzone. Annebbiato dalle bottiglie di vino rosso eppure così presente, vicino, profondamente umano. Non è un supereroe del rock, è un uomo come noi, in lotta contro la vita e in cerca della verità. «Ci sentiamo fortunati a stare da questa parte del palco. Ogni tanto capita di incontrarvi e sentire le vostre storie su come le canzoni vi hanno aiutato nei momenti difficili. La musica ha fatto lo stesso per noi» dice.

I pezzi dei Pearl Jam sono combinazioni di parole e note compresse dentro un suono che entra dentro senza trovare resistenza, perché il rock è una materia plasmata nelle mani di Stone Gossard, Jeff Ament e Matt Cameron, lanciata nello spazio dalla Fender metafisica di uno strepitoso Mike McCready. Ogni tanto durante il concerto Eddie li lascia soli sul palco e loro suonano in stato di grazia.

Quando si ritrovano al centro dopo Corduroy, Daughter (con la citazione di Another Brick in the Wall) e Porch, si guardano negli occhi avvolti da una luce rossa ed entrano nella perfezione di Black, concentrano tutta l’emozione rallentando il finale nel coro cantato insieme ai 70.000 («Fino all’ultimissima fila» dice Eddie) e poi la scaricano fuori in Alive.

«Questo paese è speciale. Ci siete stati sempre per noi, fin dall’inizio» dice Eddie Vedder con parole simili a quelle dette da Bruce Springsteen (di cui è sempre più l’Erede predestinato) a San Siro nel 2016. Milano poi ha un ruolo particolare nella rinascita personale di Eddie dopo il delirio degli anni ’90. Riprende il foglio scritto in italiano e dice: «Il 22 giugno del 2000 abbiamo fatto un concerto a Milano e io ho conosciuto una ragazza che poi è diventata mia moglie e la madre delle mie due figlie. Diciotto anni dopo sono felice di festeggiare qui il nostro anniversario».

Sua moglie Jill McCormick sale sul palco con una bottiglia di champagne (e una giacca con scritto “Yes we all care. Don’t U” in risposta a quella indossata da Melania Trump durante una visita al confine con il Messico, che riportava la scritta “I really don’t care. Do you?”). I Pearl Jam chiudono con la cover di Neil Young Keep on Rockin in the Free World e la canzone più misteriosa, affascinante ed emblematica della band, Yellow Leadbetter.

Un pezzo di cui nessuno ha mai capito il testo (che Eddie improvvisa spesso) ma con un messaggio chiaro di impegno sociale e pacifismo, una delle melodie più belle che abbiano mai scritto, inspiegabilmente lasciata fuori dal primo album e pubblicata solo come B-side, lanciata dalle radio, amata dai fan e scelta sempre come finale. Il pezzo simbolo del senso etico di stare in una band dei Pearl Jam e della loro dedizione al rock come racconto del reale, comunicazione, passione per la musica.

Eddie si mette una mano sulla gola e saluta, il concerto è finito. Sarà durato meno, ma è servito a ricordarci che alcune rockstar sono persone vere.

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