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I 100 migliori batteristi di tutti i tempi secondo Rolling Stone | Da 100 a 50

Ovvero la nostra grande occasione per dare qualche riconoscimento quelli che danno alla musica le sue fondamenta e la giusta spinta
Travis Barker, foto Facebook

Travis Barker, foto Facebook

Tempo fa, Bruce Springsteen disse di Max Weinberg, suo fidatissimo batterista per più di quarant’anni, «Io chiedo e lui ad ogni serata non mi delude mai». Come c’era da aspettarsi, Bruce ci ha spinti a tirare fuori un tributo perfetto per i veri, instancabili guerrieri della musica — quelli che stanno in fondo a tutto, dietro tutto il resto, e danno alla musica le sue fondamenta e la sua spinta, la coesione e la forma ed una grossa parte del suo carattere, spesso senza vedere i propri meriti riconosciuti come dovrebbero. Mai sentito barzellette su chitarristi senza cervello? Ecco.

Questa è dunque la nostra grande occasione per dare qualche riconoscimento ai batteristi. Nello stilare la nostra lista dei migliori 100 batteristi di tutti i tempi, abbiamo dato peso a sfumature e musicalità piuttosto che a numeri appariscenti, per celebrare musicisti che capivano l’importanza di supportare una grande canzone invece di monopolizzare l’attenzione con assoli ridicoli. Vale a dire che accanto a pezzi grossi come John Bonham, Ginger Baker, Keith Moon e Neil Peart, ed atletici artisti del suono come Stewart Copeland e Bill Bruford, troverete tipi da “sessioni senza grosse pretese” come Jim Keltner e Steve Gadd, pietre miliari del beat e del rock’n’roll degli albori come Jerry Allison and Fred Below, elusivi geni del funk e massicci titani della disco come Clyde Stubblefield ed Earl Young, ed i poco ortodossi minimalisti punk come Maureen Tucker e Tommy Ramone. Bill Berry dei R.E.M. ha detto una volta al Modern Drummer Magazine, «Credo proprio di non essere un batterista da Modern Drummer». Tuttavia il contributo che, in sordina, ha dato alla band per cui ha suonato vale molto più di un corso di batteria racchiuso in una pila di VHS impolverate (questo non vuol dire che non saremmo capaci di guardare quel video su YouTube in cui Jeff Porcaro spiega come abbia inventato il groove in Rosanna fino a ridurci gli occhi in cenere).

Un’avvertenza importante: abbiamo usato rock e pop come categorie di riferimento, quindi per rientrare nella lista, l’operato di un batterista deve aver avuto un impatto diretto in quella sfera (intesa secondo le nostre definizioni, naturalmente). Questo ha significato l’esclusione di dozzine di artisti jazz fondamentali come Max Roach e Roy Haynes, le cui innovazioni hanno ispirato molti tra i musicisti di cui leggerete più sotto. Una tale lista rappresenta un monumento a parte che speriamo di costruire nel futuro prossimo. Per ora, che comincino pure i dibattiti. Qualora desideriate lanciarci un piatto addosso, prego, fate pure nella sezione dei commenti.

100. Christian Vander
Si può dire che il frontman francese Christian Vander sia tra i migliori batteristi che non sono principalmente conosciuti per le loro doti da batteristi. È forse prevedibile quando sei il fondatore di una prog band assurdamente cosmica, attiva a fasi alterne dal 1969, che suona in una lingua jazz-rock con influenze Zappiane chiamata “zeuhl” — che significa “celestiale” in Kobaïan, il linguaggio inventato in cui i Magma si esibiscono. Ma nella feroce energia di Vander, nel suo ritmo ondeggiante e nel suo tempo vago eppure chiaro, si sente senza dubbio che si tratta di un accolito del titano del jazz Elvin Jones — e per estensione, del suo datore di lavoro più famoso: “La musica dei Magma è nata in un giorno di primavera dal mio amore per John Coltrane e la mia profonda tristezza per l’incapacità degli uomini di capirsi l’un l’altro,” ha detto Vander in un’intervista del 2015.

99. Travis Barker

Travis Barker dei Blink-182 è uno dei batteristi più famosi del nuovo millennio grazie ad una tostissima sensibilità artistica, all’estetica da skater, l’energia dell’hip-hop, un fascino tutto pop ed un visino fatto per la reality TV — per non parlare dell’agio con cui lavora con le superstar dell’EDM o rapper vari, e fa il DJ nel tempo libero. È un approccio al ritmo a tutto tondo che dà maggior spessore a tutto quello che fa. “Posso suonare tutto il giorno, e questo è qualcosa che mi commuove. Non ho mai sentito di un batterista che suoni così per altri, per i miei amici che fanno hip-hop,” ha detto Barker al Drum! Magazine. È un artista brutale che si esibisce con ferocia e non ha paura di essere plateale.

98. Steven Adler

Lo storico debutto dei Guns N’ Roses, Appetite for Destruction, deve buona parte della sua esuberanza al ritmo inquieto eppure eccitante di Steven Adler, l’eccentrico batterista della band. “Ad essere oggettivi nei confronti di Steven, e fatto sconosciuto ai più, l’atmosfera e l’energia di Appetite si devono soprattutto a lui,” ha scritto Slash nella sua autobiografia. “Aveva un modo inimitabile di suonare la batteria che non poteva essere sostituito da altri, una leggerezza quasi adolescenziale che aveva dato alla band il tocco che la contraddistingueva.” Il bassista Duff McKagan concordava: “Senza il suo groove, non avremmo potuto creare molti di quei riff,” ha detto all’Onion A.V. Club nel 2011. Adler, cacciato dalla band nel 1990, fu sostituito da batteristi dalle grandi capacità tecniche come Matt Sorum e Frank Ferrer, ma nessuno è in grado di cogliere del tutto il suo esuberante ritmo imbevuto di whiskey ed una gioventù scapestrata.

97. Cindy Blackman
Nel 1993, Blackman cambiò il corso della propria carriera, passando da fenomeno del jazz alla Tony Williams a rock star che si esibisce nelle grandi arene come parte della live band di Lenny Kravitz. Dopo la sorpresa, da parte del cantautore, di un’audizione, è stata catapultata nella sua sfera, facendo la sua apparizione nel video di Are You Gonna Go My Way per poi seguirlo saltuariamente in tournée. “Il mio ruolo [con Lenny] è quello di suonare un ritmo per ore, e di far sì che sia buono, inserendo aggiunte e sfumature stimolanti, laddove consono,” ha detto al The Villager, commentando le sue molteplici capacità. “Il mio lavoro nella band e quello in un contesto creativo sono una cosa completamente diversa. Possiamo cominciare con un groove che va alla grande — Posso anche suonarlo per ore, ma poi devo esplorarlo ed espanderlo e cambiarlo, devo giocare con il ritmo ed intervenire con i solisti.” Il fine istinto di Blackman per l’improvvisazione insieme alle sue formidabili abilità che superano i confini di genere, entrambi in bella mostra in progetti come il tributo a Williams Spectrum Road, le saranno di grande aiuto nei Mega Nova, un nuovo progetto che vede coinvolti suo marito Carlos Santana ed i grandi del jazz Herbie Hancock e Wayne Shorter.

96. Larry Mullen Jr.

L’unico membro degli U2 che effettivamente assomiglia ad una rock star ha visto i suoi inizi alla fine degli anni ’70 come principiante dal gusto post-punk ed un posto di lavoro traballante: Ad un certo punto, gli altri membri della band avevano pensato di liberarsi di lui, una mossa incoraggiata durante l’incisione della prima demo degli U2 da parte di un discografico inorridito dalla scarsa abilità di Mullen di tenere il tempo. Ribaltò però la situazione, diventando uno dei percussionisti più influenti del rock. Al passo con la tecnologia e sorprendentemente originale, Mullen fa sì che i groove degli U2 restino sempre orientati al futuro — dalle rullanti raffiche marziali che annunciano Sunday Bloody Sunday, fino alla scoperta del battito del cuore umano tra i suoni elettronici da discoteca di Achtung Baby. Protestò con il produttore che un click track non era completamente in sintonia con il resto della band — dopo che il batterista ebbe lasciato lo studio, Eno scoprì che era fuori di sei millisecondi. “Il fatto è,” Eno ha detto al New Yorker, “che mentre lo stavamo regolando, ad un certo punto avevo [il click track] in discrepanza con il ritmo di due millisecondi, e lui ha detto, ‘No, devi tornare un attimo indietro.’ Il che credo sia assolutamente sbalorditivo.”

95. Chris Dave  
“Il mio peggior incubo Chris Dave è il suo batterista,” ha detto Questlove ad un giornalista anticipando il ritorno live di D’Angelo nel 2012. “C’è bisogno del batterista più pericoloso che ci sia in quel tour.” Sebbene il suo nome non sia famosissimo, il modesto quarantaduenne esperto di R&B conosciuto come Daddy è leggendario tra quelli dell’ambiente. Proprio come l’ornamento sul muso di una Cadillac o il logo di Tiffany, avere Chris Dave tra i nomi di una sessione è un segno di pura classe; compare in alcuni degli album pop contemporanei più famosi, tra cui 21 di Adele e Black Messiah di D’Angelo. Pur avendo iniziato ammirando i grandi del jazz come Tony Williams — e, più tardi, incanalando quell’ispirazione nel suo stupefacente lavoro insieme ad assi dell’improvvisazione come Robert Glasper — ha lasciato un impatto soprattutto come batterista fortemente in sintonia alle intermittenze e ai singhiozzi dell’hip-hop che usa soprattutto sample. Il grande talento di Dave è quello di saper creare beat che ti prendono, spesso realizzati con una batteria arricchita addirittura da cinque rullanti, che però si mescolano comunque meravigliosamente con la trama dell’ensemble.

94. Meg White

Il peculiare approccio alla batteria di Meg White è stato fondamentale nel fascino dei White Stripes, che con i loro abiti sgargianti ed un blues minimalista hanno raggiunto il podio del rock nei primi anni 2000. Pezzi come Dead Leaves and the Dirty Ground e Blue Orchid sono stati portati in vita dal dal suo backbeat bashing che di semplice ha solo l’apparenza e che ha aiutato a definire il ritmo incalzante degli Stripes. “Spesso la osservavo sul palco e mi dicevo, ‘Non riesco a credere che sia lì.’ Non credo abbia capito quanto fosse importante per la band, per me e per la musica,” ha detto Jack White a Rolling Stone nel 2014. “Era l’antitesi del batterista moderno. Così candida ed incredibile e stimolante. Il silenzio tra noi non importava, perché sul palco? Nulla che io potrò mai fare batterà quel che ha fatto lei.”

93. Tomas Haake

Sofisticato pilastro del rombante sound sperimentale dei Meshuggah, band metal svedese, Tomas Haake crea una sensazione di dissesto suonando un tipico ritmo in 4/4 con la mano destra e tuonanti poliritmie con tutto il resto. Ne risultano percussioni che spesso ricordano l’accelerazione meccanizzata di una Lamborghini Diablo SV. Dal primo album dei Meshuggah, Contradictions Collapse del 1991, Haake ha mutato il suo approccio aggiungendo battiti elettronici e sequenze alla batteria sempre più sofisticate, grazie ai chitarristi Fredrik Thordendal e Mårten Hagström. “I ragazzi scrivono tutti al computer, ed io imito quello che hanno scritto,” ha detto Haake. “A volte questo rende il lavoro alla batteria difficile, ma allo stesso tempo costituisce una grande sfida ed un ostacolo da superare. Mi tiene proprio con il fiato sospeso.”

92. Ralph Molina

Neil Young ha suonato con molti batteristi negli ultimi 50 anni, ma torna sempre da Ralph Molina, che incontrò per la prima volta ai tempi dei Buffalo Springfield, quando Molina era un membro dei Rockets. Come i suoi compari dei Crazy Horse, Molina non incarna affatto lo stereotipo del virtuoso musicale. “Capita che inizi a suonare la chitarra, e Ralph si immetta al momento sbagliato e suoni il pezzo al contrario,” ha detto Young al biografo Jimmy McDonough. “Succede sempre. Non succede mai nei gruppi di professionisti.” Non è un insulto. È quel modo di suonare crudo, che ti viene dalla viscere – ed un’inclinazione per backbeat genuini che procedono con grazia elementale al di sotto degli inconfondibili voli distorti di Young — che ha aiutato Molina a porre le fondamenta per Down by the River, Cinnamon Girl ed altri classici senza tempo. “Noi non conosciamo le canzone; non abbiamo spartiti,” ha detto Molina nel 2011 riguardo al suo lavoro conYoung. “Iniziamo semplicemente a suonare. La magia sembra accadere da sé … ” Le prove di ciò sono chiare in ogni disco dei Crazy Horse da Everybody Knows This Is Nowhere del 1969 a Psychedelic Pill del 2012.

91. Brian Chippendale
“Tutta la nostra roba è un modo per arrivare a qualcosa che sia forse una nuova parte di qualcosa di musicale,” ha detto la trebbiatrice umana Brian Chippendale. “O forse si tratta solo di questa sensazione che non mi fermerò, continuerò a suonare la batteria quanto più a lungo possibile.” Il longevo duo di Chippendale, i Lightning Bolt, tratta il noise-rock come fosse body music, con la sua grancassa che pulsa assieme al basso distorto di Brian Gibson, ed i suoi colpi a successione rapida sul rullante in una nebbia di colori brillanti. Assolutamente assordante su un semplice kit di quattro pezzi, completamente preso quando i fan stanno cadendo sui suoi strumenti, [Chipperdale] è uno studio di estremi ballabilissimi — e l’ambasciatore non ufficiale di una generazione di percussionisti-pionieri avant-rock del 21° secolo che include Zach Hill (Death Grips, Hella) e Greg Saunier (Deerhoof). “Alcuni anni fa i Lightning Bolt si sono esibiti in Inghilterra all’All Tomorrow’s Parties, e c’era questo breve spezzone che mi hanno mandato, credo, tutti i miei amici,” ha riferito al Pitchfork Björk riguardo alla collaborazione con Chippendale su Volta del 2007. “L’ho visto così tante volte, e mai avrei mai pensato che un giorno avrei lavorato con qualcuno così.”

90. Janet Weiss

“Janet aveva creato una parte per la batteria, brutale e solida, avremmo potuto praticamente batterci la testa,” Corin Tucker ha raccontato a Drum! di come Janet Weiss si sia unita alle Sleater-Kinney. “Così fummo in tre.” Da quando ha fatto squadra con Tucker e Carrie Brownstein nel 1996, Janet Weiss è stata il feroce pilastro dell’istituzione del rock alternativo prestando il suo tosto talento anche a Bright Eyes, Jicks, Shins ed altri. Ma è il suo lavoro con le Sleater-Kinney che si è rivelato il più influente, offrendo un equilibrio costante tra l’accompagnamento alle canzoni ed un’aggressività primitiva. “La musica, per me, è la forma d’arte più immediata. Forse perché prediligo la fisicità. … colpisco le cose. C’è fisicità nella nostra musica. Usiamo ogni parte del nostro corpo,” ha detto a Paper in un’intervista sul suo super gruppo Wild Flag. “Di rado è concesso alle donne di essere animali. E noi lo siamo.”

89. Bill Stevenson

Bill Stevenson ha fornito un backbeat furioso a due filoni di punk innovativo della California meridionale. Nel 1977, nei panni di un brufoloso quattordicenne, Stevenson fu uno dei co-fondatori dei Descendents, i cui strazianti inni precursori degli emo a venire — tatuati con gli inconfondibili colpi a ripetizione al rullante di Stevenson, e spesso anche scritti e prodotti da lui — hanno posto le basi per gruppi come Green Day, Blink-182, Fall Out Boy e Weezer. E a partire dai primi anni ’80, ha collaborato come batterista con i brutalisti del punk di L.A., i Black Flag, in quella che si potrebbe definire la fase più creativa della band; come si deduce da album come My War e Slip It In, il suo ritmo stabile eppure versatile ha aiutato l’esplorazione del chitarrista Greg Ginn di ogni campo dal monolitico art metal allo spastico punk che si fa jazz. Stevenson, che continua a fare numerosi tour con i Descendents, la loro spin off band e tributo agli All e ai Black Flag, i Flag, attribuisce l’incontenibile energia del suo modo di suonare ad un’influenza di ogni giorno: la caffeina. “Nella nostra band, bevevamo parecchio caffè, oppure mangiavo 50 Snickers, prima di un live,” ha detto nel 2014.

88. Jon Theodore

Jon Theodore è il super batterista più in vista del mondo del rock contemporaneo, un musicista che ha fatto suoi gli stili delle pietre miliari degli anni ’70 — lo straordinario talento di Billy Cobham, la maestosa spavalderia di John Bonham — e li ha aggiornati perché fossero adatti alle necessità delle esibizioni dal vivo al giorno d’oggi. Theodore si è fatto inizialmente notare nei primi anni 2000, suonando uno strabiliante rock progressivo dalle influenze latine con i Mars Volta. “Ho visto alcune delle sue prime performance con i Mars Volta,” ha detto Zack de la Rocha dei Rage Against the Machine, che in seguito avrebbe suonato con il nerboruto ensemble guerilla-funk One Day as a Lion. “Era chiaro che la musica a L.A. non sarebbe più stata la stessa ora che c’era lui.” Ma fu una raccomandazione di Dave Grohl che portò Theodore al suo ruolo di maggior spicco. “Dave mi fa, ‘Sai, quello che mi lascia proprio senza parole è Jon Theodore,'” ricorda il leader dei Queens of the Stone Age, Josh Homme, che ha portato Theodore nei QOTSA nel 2013. A quanto pare la collaborazione non è esclusiva: Quando Skrillex, Diplo e Justin Bieber hanno rifatto dal vivo i connotati a Where Are Ü Now ai Grammy 2016, Jon Theodore era dietro la batteria.

87. George Hurley
L’hardcore punk esisteva appena quando l’innovativissimo trio dei Minutemen, di San Pedro, California, lanciò il suo primo disco nel 1980, eppure loro erano già andati oltre, fondendo funk, avant-rock e folk in esplosioni splendidamente sintetiche di intricate rivelazioni. La musica della band, frenetica ed inaccessibile — eppure dal sound stranamente naturale — sarebbe potuta finire in caos senza George Hurley, un fan del jazz la cui assurda velocità, versatilità e nuance hanno reso il batterista più creativo ad essere emerso dalla scene dell’indie-rock americano degli anni ’80. Qualche esempio tra tantissimi altri: lo swing pungente in Search e The Big Foist, la rapida sincope in I Felt Like a Gringo, il frastagliato capitombolo jazz di Split Red ed i colpi di East Wind/Faith, che contiene uno dei pochi assoli alla batteria del punk rock. “Mi piace l’R&B,” ha detto. “Ne apprezzo lo spazio ed il rilassamento. Allo stesso tempo, mi piacciono le cose convulse e frammentate, così cerco di mettere insieme le due cose. Direi che è come una zuppa di mais tostato!”

86. Phil Rudd

Batterista di lungo corso degli AC/DC Phil Rudd ha, di recente, ricevuto più copertura stampa per aver minacciato di morte un ex impiegato e per essere stato trovato in possesso di metanfetamina ed erba di quanta ne abbia ricevuta in 29 anni di sobri beat solidi come la roccia ed un tempismo impeccabile. Un vero peccato, visto che lo stile parco di Rudd ed il suo groove mostruoso hanno contribuito a spianare la strada per il successo all’iconica band. Uno dei minimalisti più consistenti nel mondo delle percussioni hard-rock, Rudd ha influenzato un’ondata di artisti internazionali da Christoph Schnieider dei Rammstein ad Eric Singer dei Kiss. “Ci dà dentro in un modo molto spartano, ma anche molto efficace,” ha detto Singer. “L’atmosfera che crea è davvero il cuore a l’anima della band.” Rudd si unì agli AC/DC nel 1975, rimpiazzando Peter Clark, e suonò per sette album prima che il vocalist Bon Scott morisse di una “morte per disavventura.” In seguito ad un periodo in cui abusò di sostanze stupefacenti ed un alterco fisico con il chitarrista ritmico Malcolm Young, Rudd fu licenziato nel 1983. Tornò agli AC/DC alla fine del 1993 suonando per altri quattro album — la sua aura spartana e spietata gloriosamente invariata in Rock or Bust del 2014 — prima di perdersi con lo scandalo recente.

85. Tommy Lee

Gli assoli di Tommy Lee che sfidavano la gravità e la sua tendenza ad indossare ben pochi vestiti l’hanno reso uno dei grandi showmen del metal. Ma il suo bashing nei Mötley Crüe è tanto importante quanto il suo carisma, il clangore furioso di Lee ha aiutato a definire il fascino glam-punk di Too Fast for Love, debutto dei Mötley, mentre il beat-terremoto che ha dato la carica all’eponimo pezzo in Dr. Feelgood suonava minaccioso e travolgente come il racconto della decadenza al sapore di stupefacenti degli anni ’80 racchiusa nella canzone. La sua “batteria da sogno,” che ha portato con sé nell’ultimo tour dei Mötley Crüe nel 2015, si allinea con la sua estetica minimalista: “Ho un kit completamente trasparente ora così le persone possono vedere esattamente cosa faccio,” ha detto. “La maggior parte dei batteristi sono coperti da un milione di percussioni e tutti si chiedono, ‘Che stai combinando laggiù?'”

82. John Stanier

“Quando sperimenti con i loop, il loop in realtà è il batterista,” ha detto John Stanier in un’intervista del 2011, parlando dell’approccio tecnologico preferito dalla sua band, i Battles.”È lui che, indirettamente, alla fine dei conti, sta dirigendo lo spettacolo.” Non ci sono però dubbi che, quando Stanier è sul palco, è lui comandare, caricando la performance con minimalistici battiti polverizzanti, che si prestano a danze furiose. Quando i pezzi grossi dell’alt-metal anni ’90, gli Helmet, raggiunsero il grande pubblico nel ’92 vendendo milioni con l’album Meantime, essi ridefinirono il sound dell’heavy rock — e la loro ascesa deve molto a Stanier, il cui approccio, opulento eppure matematico, alla batteria portò i riff scolpiti di Page Hamilton verso nuove vette. Cresciuto a Neil Peart ed istruito nelle tecniche delle drum-corps, Stanier riportò il modo di suonare la batteria nel rock alle sue parti più essenziali, una tendenza che avrebbe raggiunto l’apice dell’austerità con i Battles. “Fu una reazione alla varietà di strumenti e alla complessità degli altri,” ha detto della sua batteria spartana, arricchita da un solo imponente piatto crash, “ma anche a quel che io avevo fatto in precedenza e a quello che i batteristi del tempo stavano facendo.” Il dono di Stanier consiste nel rendere ciò che minimo monolitico.

83. Ronald Shannon Jackson
Se Ronald Shannon Jackson non avesse fatto altro che suonare con icone del jazz d’avanguardia come Albert Ayler, Ornette Coleman e Cecil Taylor nei 12 anni tra il 1966 ed il 1978, non ci sarebbero dubbi sulla sua statura. Ma Jackson, che incorporava sequenze di percussioni da parata, ritmi africani e funk in un unico, inconfondibile stile, andò oltre formando la sua criticamente acclamata Decoding Society, da cui emersero il chitarrista dei Living Colour Vernon Reid ed il bassista della Rollins Band Melvin Gibbs. “Sintetizzava shuffle blues con l’andamento sincopato della musica africana attraverso la visione di una persona che sfogava ogni tipo d’emozione,” ha detto Reid del defunto batterista-compositore, in un articolo del 2003 comparso su Fort Worth Weekly. “Penso che lo scontro tra valori nella sua musica rappresenti nel profondo la cultura americana.” Il rimbombo sismico di Jackson ha anche navigato sessioni condotte da John Zorn e Bill Laswell, raggiungendo il suo massimo picco con i Last Exit, uno sconvolgente quartetto punk-jazz di cui facevano parte Laswell, il sassofonista Peter Brötzmann ed il chitarrista Sonny Sharrock.

82. Glenn Kotche
Circondato sul palco da quelle che il leader della band Jeff Tweedy chiama le sue “in-Glenn-zioni,” Glenn Kotche porta ai Wilco la sensibilità di un percussionista da orchestra, gli impulsi sperimentali di un indie rocker e dei solidi chop da rock di altri tempi. Kotche, unitosi alla band in tempo per l’album di trasformazione Yankee Hotel Foxtrot, ha equipaggiato il suo kit con vibrafono, effetti MIDI, gong, una coppa ruota, piatti d’epoca ricalibrati, palline da ping-pong colme di palline più piccole ed un tubo collegato al suo cembalo. Talvolta “prepara” le sue percussioni ricoprendole di catene e spargendo perline e riso sulle membrane. Nelle sue composizioni, Kotche esplora ritmi accidentali e casuali (cioè poliritmie fortuite) in collaborazione con i So Percussion ed altri avventurosi ensemble contemporanei. “Credo che sia uno dei più grandi batteristi,” ha detto Tweedy, “e tra noi c’è un’incredibile fiducia musicale.” A cui l’ibrido tra Jim Keltner e John Cage ha risposto, “Sono lì per servire le canzoni.”

81. JR Robinson
John “JR” Robinson si definisce il “Batterista Più Registrato della Storia,” che dovrebbe dare un’idea della voluminosa discografia di uno dei punti di riferimento del pop: “I’m So Excited” delle the Pointer Sisters, “Higher Love” di Steve Winwood, “Ain’t Nobody” di Rufus e Chaka Khan, una prozione di Random Access Memories dei Daft Punk e la titanica “We Are the World.” Soprattutto, Robinson ha posto le basi disco-rock-funk-pop del rivoluzionario Off the Wall di Michael Jackson. L’idea di Robinson del batterista come di qualcuno che tiene il tempo non fa altro che aumentare la sua abilità innata di dare alle canzoni una grande carica con gesti discreti. “Lui è l’unico batterista in tutta la mia vita a cui potrei chiedere di fare una battuta d’introduzione su ‘Rock With You’ di Michael Jackson,” ha detto Quincy Jones durante la celebrazione dei suoi 75 anni al Montreux Jazz Festival. “Ho detto, ‘Voglio un lick alla batteria che tutto il mondo può cantare’ … e l’hanno cantato.”

80. Steve Jordan
Cresciuto da una forte tradizione di R&B e soul, Steve Jordan era un adolescente quando iniziò a suonare per Stevie Wonder ed evolse presto in un artista versatile abile sia con un’estemporanea jazz fusion che un rock sobrio e diretto ma espressivo. Con dieci anni in meno rispetto a gran parte dei pezzi grossi del rock anni ’60, è stato lui a fornire il carburante per un seguito — membro de Keith Richards and the X-Pensive Winos, ha suonato per Neil Young negli anni ’80, fatto tour in lungo e in largo con Eric Clapton ed ha persino fatto parte della band immaginaria dei Blues Brothers. (Ha anche stabilito forti legami con la generazione più giovane, collaborando con il distintivo trio di John Mayer.) Rilassato e sicuro, Jordan imparò a padroneggiare di tutto, imbevendo qualsiasi cosa suonasse con il suo caratteristico swing. “Se sei una persona rigida, non credo tu possa fare swing o trasmetterlo ad altri,” ha detto della sua tecnica. “Preferire senza difficoltà un batterista senza tecnica ad uno più efficiente, se il suo swing fosse migliore.”

79. Mick Avory

“Se non ci fossimo mai spostati dai toni più pesanti, non sarei stato molto adatto [alla band],” ha detto il batterista dei Kinks Mick Avory. È forse per questo che i Kinks hanno usato un turnista per la loro bomba proto-metal “You Really Got Me” (anche se Avory ha contribuito al tamburello). Ma mentre il frontman dei Kinks Ray Davies maturava come autore, Avory emergeva con discrezione come uno dei batteristi più innovativi degli anni ’60. “Non saprei se le composizioni di Ray sono state assorbite dal mio modo di suonare oppure se io sono stato assorbito dal suo modo di scrivere.” Con la sua versatilità da jazzista e le originali cadenze alle percussioni, Avory, che nel 1962 era stato corteggiato dai Rolling Stones, era infatti la controparte ritmica ideale per lo stile sardonico e maturo di Ray Davies. Mentre il modo di suonare di Avory era raffinato e discreto, sul palco le battaglie con il chitarrista Dave Davies erano leggendari; quando in un live del 1965, a Cardiff, Dave distrusse la batteria di Avory, ricevette in cambio un pedale in testa. Tuttavia, in qualche modo Avory riuscì a non farsi cacciare dalla band prima del 1984.

78. Micky Waller
Un’istituzione del mondo del blues londinese con qualifiche da jazzista, Waller trovò il suo equilibrio quando sì uni al Jeff Beck Group nel 1967. Il suo inconfondibile “Waller wallop” immetteva gran parte dell’energia presente in Truth di Beck, l’anello mancante tra hard blues ed heavy metal. Waller ha anche suonato la batteria per i primi album da solista di Rod Stewart, raggiungendo l’apice in una sessione del 1971 dove si presentò senza piatti. Rod non poteva permettersi di sprecare il tempo nello studio così incise comunque “Maggie May”, con il bashing di Waller così feroce e costante che il critico Greil Marcus ha scherzato che si sarebbe meritato un Premio Nobel per la fisica. “Abbiamo aggiunto i piatti dopo, perciò si sentono di meno,” ha ricordato Stewart. “Il fatto che Micky avesse dimenticato i piatti alla fine ha dato a ‘Maggie May’ un ritmo più incisivo.”

77. Moe Tucker
Il suo è stato il battito instabile che ha dato origine a millemila band. Questa è l’ampiezza dell’influenza dell’accompagnamento, ingannevolmente semplice e sapientemente sofisticato, che Maureen “Moe” Tucker portò alla lineup storica de Velvet Underground, influenzando artisti che vanno da Patti Smith ai R.E.M. ai Galaxie 500 ai Nirvana. Infatti, Tucker non aveva nulla da invidiare ai leader dei Velvet Lou Reed e John Cale quando si trattava di iconoclastia musicale avant-garde degli anni ’60 — in piedi piuttosto che seduta dietro il kit, suonava con martelletti piuttosto che bacchette, evitava i piatti se non assolutamente necessario o previsto. In classici dei VU come “Heroin,” Tucker pare fare del tutto a meno di tenere il tempo, rigonfiandosi e balbettando insieme agli alti e bassi della canzone. “Penso che Maureen Tucker sia una batterista geniale,” ha detto Lou Reed nel 2003. “Il suo modo di suonare, da lei inventato, è straordinario.”

76. Earl Young
Nel 1973, con la hit R&B de Harold Melvin and the Blue Notes “The Love I Lost,” Earl Young inventò il disco beat — tutti e quattro i battiti di una misura suonati su una grancassa. Questa malleabilissima sequenza ritmica fu il ritmo di una decade ed è tuttora onnipresente quando i ballerini si scatenano. Come membro dell’ensemble MFSB, Young ha anche fornito la struttura musicale per Philly Soul, collaborando a dischio di O’Jays, Spinners e la sua band, i Trammps — ma il suo originale contributo è quello che più si sente ancora oggi, avendo predetto più di 30 anni di musica house che ancora riempie i festival. “Non ho una drum machine,” ha detto. “All’epoca la drum machine ero io.”

75. Earl Hudson
La feroce band hardcore di D.C. Bad Brains era nata come gruppo jazz fusion, e Earl Hudson non perse la sua mano straordinaria quando il tempo fu portato alla velocità della luce e schiantato contro una parete. Dave Grohl dei Nirvana ammette di averne imitato la tecnica nell’intro di “Smells Like Teen Spirit” e ha detto a Modern Drummer, “Imparavo tutti i [suoi] lick alla perfezione.” Quando il batterista hard rock Chad Smith si unì ai Red Hot Chili Peppers nella loro fase punk, il frontman Anthony Kiedis gli disse di familiarizzarsi [con Hudson]. Col tempo i Bad Brains rallentarono, cimentandosi nel metal metal, reggae e funk, dando ad Hudson più spazio per mettere in mostra la sua malleabile versatilità. Ma sarà sempre, soprattutto conosciuto come l’architetto principale della musica hardcore americana.

74. Michael Shrieve

Quando Santana calcò le scene il secondo giorno del Festival di Woodstock, stretto tra Country Joe McDonald e John Sebastian, fronteggiarono un oceano di ascoltatori che non avevano mai sentito una nota della loro musica, dato che l’LP di debutto del gruppo non era ancora sugli scaffali. Ma sin dalla nota di apertura di”Waiting,” il pubblico fu ipnotizzato dall’originale fusione di orecchiabili ritmi latini ed un esplosivo rock psichedelico. A tenere tutto insieme era il batterista ventenne Michael Shrieve, l’artista più giovane di tutto il festival. Con il suonatore di conga Michael Carabello da una parte ed il suonatore di timbales Jose “Chepito” Areas dall’altra, Shrieve presentò un rimbombante assolo infuso di jazz nel mezzo di “Soul Sacrifice” che dopo 50 anni rimane stupefacente. Appena due anni dopo Santana nell’abbraciare la fusion ed altri stili non commerciali perse quasi tutti i membri originali, ma Shrieve gli rimase a fianco co-producendo addirittura Welcome nel 1973 e Borboletta nel ’74. Il batterista lavorò poi con artisti vari dalla Pat Travers Band ai Rolling Stones, mostrando il suo formidabile range. “Michael Shrieve ha scatenato in me l’interesse per Miles Davis e John Coltrane,” ha detto Carlos Santana nel 2013. “Ha aperto una dimensione completamente nuova per il mio cuore.” (Come si conviene, la collaborazione continua: Shrieve farà la sua comparsa in Santana IV, uscito il 15 Aprile, che riunisce quasi tutta la formazione originale che aveva suonato nell’eponimo LP del 1971.)

73. Pete Thomas

In meno di un anno, Elvis Costello passò dall’ispido pub-rock di My Aim Is True alla biliare frenesia di This Year’s Model, e non avrebbe potuto fare il grande salto senza Pete Thomas, fan di Mitch Mitchell, dietro la batteria. In quei primissimi dischi degli Attractions, Thomas suonava come Elvis cantava, con una rabbia repressa che poi esplodeva, il farfugliare esitante del timpano o del rullante che suggeriva un tentativo fallito di reprimere quell’inevitabile esplosione. (Segue l’eccitante introduzione a “(I Don’t Want to Go to) Chelsea.”) Quando le composizioni di Costello cominciarono a richiedere sfumature più ricche, Thomas rimase il suo complice ideale nel ritmo, suonando con un’intuizione forgiata dalla lunga collaborazione. “Pete Thomas è di certo il batterista rock and roll della sua generazione,” ha affermato Costello in un tweet l’anno scorso, “ed il fatto che non si sia mai detto in un sondaggio vi dice tutto quello che c’è da sapere sui ‘sondaggi’ e nulla sui batteristi.”

72. James “Diamond” Williams
Educato al jazz ed ambidestro, da giovane adolescente James Williams si esibiva con varie band nei bar di Dayton. Quando si unì agli Ohio Players nel 1974, il gruppo era già in piedi da 15 anni, ma la loro catena di successi dance per la Mercury Records stava appena cominciando. Il modo composto ma, a intermittenza, esplosivo di suonare di Williams divenne la forza motrice di questi pezzi – la sua stabile base funk poteva esplodere inaspettatamente in fill indomabili, persino in ballate come “I Want to Be Free.” Pur avendo ideato la sua parte di ritmi complessi, quando arrivava il momento del ritornello di una canzone, Williams si precipitava sul rullante con un ritmo che, raramente discreto o negoziabile, ti imponeva di ballare.

71. Butch Trucks and Jaimoe
I batteristi dell’Allman Brothers Band Butch Trucks e Jai Johanny “Jaimoe” Johanson sono stat inseparabili dagli albori del gruppo, mettendo la loro energia in tutto dai ritmi intricati dell’iconica “Whipping Post” a discreti esercizi come la loro versione di “Trouble No More” di Muddy Waters. Il pedigree di Jaimoe come batterista soul degli anni ’60 a fianco del grande Otis Redding si unisce al ritmo infuso di blues e rock di Trucks, formando una logica sincopata del beat tutta loro. Come Jaimoe ha raccontato a Relix, lui e Trucks provarono a prendere lezioni di percussioni da Elvin Jones nel 1974, ma la leggenda del jazz disse loro, “Che volete? So chi siete. Cosa dovrei insegnarvi?”

Tommy Ramone ha dato al punk rock il suo battito

70. Tommy Ramone

“Ha dato al punk rock il suo battito”: così recitava il titolo del necrologio sul The New York Times, commentando la morte nel 2014 di un certo Tamás Erdélyi — meglio conosciuto con il suo nome d’arte, Tommy Ramone. Con le sue bombe di otto note furiosamente metronomiche e timpani tribali, ha dato il ritmo velocissimo ai primi tre, sconvolgenti album dei Ramones, allineando il suo tempo alla chitarra micidiale di Johnny Ramone. (“Non diversamente da un trapano a tutta velocità su un molare posteriore” è così che Erdélyi aveva caratterizzato il suo stile.) Contribuì in maniera importante anche alla stesura del repertorio immortale della band, stendendo addirittura “Blitzkrieg Bop,” che Joey Ramone definì “una chiamata alle armi perché tutti formino una propria band.” tra questi sarebbero rientrati artisti come Clash e Metallica ed ogni band che si sia esibita nel Warped Tour; infatti, l’inconfondibile battito di Erdélyi risuona ad oggi con la stessa potenza di sempre.

69. Dale Crover
“Un batterista come Dale Crover, capisci subito quando Dale sta suonando con i Nirvana perché è il miglior batterista del mondo,” ha dichiarato niente di meno che il batterista stesso dei Nirvana Dave Grohl. “Ho sempre pensato che se le cose non fossero funzionate [con me], avrebbero potuto sempre lavorare con Dale.” Anche se lo si può ascoltare che picchia duro in nove pezzi dei Nirvana rilasciati in via ufficiale tra Bleach e lati B, l’occupazione principale di Crover è il suo ruolo, che perdura ormai da più di 30 anni, all’interno dell’inarrestabile istituzione dell’art-sludge, i Melvins — in parti uguali terremoto, showman tenace e abile matematico nel seguire gli alti e bassi dei riff Beefheartiani di Buzz Osborne. Incensato dall’amore per i Kiss e gli Zeppelin, il sound originale di Crover viene da tom-tom che esplodono come cannoni, barre di metallo che scottano, una grancassa farfugliante ed un attacco pregno del suo sangue e sudore che ti colpisce più forte del tuo punk adolescente preferito.

68. Jerome “Bigfoot” Brailey
Nel 1975, quando George Clinton sentì per la prima volta “Fame” di David Bowie alla radio, si rivolse al suo nuovo batterista e gli disse “Ricordati quel beat per me.” Dunque Jerome Brailey, nuova recluta dei Parliament-Funkadelic, filtrò lo stile del batterista di James Brown Jabo Starks attraverso il nebbioso jive cosmico di Bowie in “Give Up the Funk (Tear the Roof Off the Sucker).” Brailey sarebbe rimasto a bordo fino al 1978, guidando molti dei più grandi successi dei P-Funk con la sua persistente grancassa, il suo lavoro evasivo con l’hi-hat ed i suoi complicati, imprevedibili motivi sul rullante, prima che la sfiducia verso le capacità di contabile di Clinton lo portassero a formare i Mutiny, un gruppo il cui funk era tanto potente da farti subito capire perché lo chiamassero. “Fare funk è molto semplice,” ha detto Brailey ad un giornalista nel 2010. “Tutto ruota intorno al fremito che ti causa il tempo. Il funk nasce da dentro. … Ho fatto live con i Parliament dove ero così immerso nel funk che me lo sentivo nelle ossa ed è allora che anche il pubblico riesce a sentirlo.”

67. Greg Errico
Greg Errico aveva appena 17 anni quando Sylvester Stewart lo invitò ad unirsi al suo nuovo gruppo Sly and the Family Stone. Errico aiutò a governare uno degli ensemble più importanti del funk partendo dalle prime incisioni al mastodontico There’s a Riot Goin’ On. Nel 2015, Errico ha detto a Rolling Stone che al loro apice, suonare con i Family Stone “mi faceva drizzare i capelli, lì il palco si alzava da terra come un boeing spiccava il volo.” Nel 1971, con i Family Stone precipitati nel caos, Errico fu il primo a staccarsi finendo a lavorare con artisti del calibro di Lee Oskar, Betty Davis e Funkadelic non solo come batterista ma come produttore e arrangiatore.

66. Kenny Aronoff

Meglio conosciuto come il tostissimo batterista di John Mellencamp dal 1980 al 1996, Kenny Aronoff è assolutamente capace di tirare fuori fills appariscenti — non dimentichiamoci del rimbombo che porta al bridge di “Jack and Diane.” Ma è ugualmente a suo agio a suonare in sintonia con la band mantenendo un beat robusto. “[In qualità di batterista], sono un dipendente,” ha detto all’Esquire. “Il mio lavoro è ascoltare, imparare, guidare. E capisco che non sono io il capo.” Con un sesto senso per ciò che conta davvero quando si fa pop e la pazienza per seguire le disposizioni, è diventato il percussionista da studio di riferimento per i Rolling Stones, Bob Dylan, Bruce Springsteen, Neil Diamond, Eric Clapton, John Fogerty, Sting, gli Smashing Pumpkins, Lady Gaga e tanti altri.

65. Sly Dunbar
Il quasi onnipresente batterista reggae Lowell Fillmore Dunbar ha suonato con tutti e, vista la frequenza con cui i suoi riddim diventano sample, è forse il musicista più inciso del mondo. Con un soprannome che deriva dalla sua devozione a Sly Stone, Dunbar ha inciso il suo primo pezzo, “Night Doctor,” con gli Upsetters a 15 anni. L’aver conosciuto nel 1972 il bassista Robbie Shakespeare portò ad una relazione lavorativa durata tutta una vita, specialmente nelle band di Peter Tosh e dei Black Uhuru ma anche nel tour dei the Rolling Stones del 1978, Some Girls. Sly e Robbie portarono il dub reggae sul palco meglio di chiunque altro. “Io e Robbie non sapevamo cosa stavamo facendo fino a quando la musica giamaicana non ha preso la direzione del dub ed il bass and drum ti arrivava dritto in faccia,” ha spiegato. La distanza tra lo swing rilassato di Carlton Barrett e l’energico stile metronomico di Dunbar segna il punto dove il roots raggae si è evoluto nel suo successore sulle piste da ballo.

64. Chad Smith

Dal suo debutto con i Red Hot Chili Peppers nel 1989, Chad Smith ha costantemente fuso la rapidità del funk classico con il potere ed il volume di un rocker che si esibisce negli stadi. “Lui suona duro, amico,” ha detto Sammy Hagar, che a reclutato Smith per la sua band Chickenfoot. “Viene da Detroit, per Dio!” Dopo aver inizialmente lavorato con i RHCP, Rick Rubin era così impressionato dalla versatilità di Smith che prese ad utilizzare “l’immensa forza e la grande aura” del batterista in altre sue produzioni. L’ex batterista dei Chili Peppers Cliff Martinez lo chiama “un virtuoso che fa paura … con una solida, sofisticata intuizione per ciò che è più appropriato.” Ed Anthony Kiedis attribuisce a Smith l’ispirazione per le sue peculiari movenze: “Non devo far altro che chiudere gli occhi ed ascoltare Chad. Altrimenti starei fingendo.”

63. Dennis Chambers

Giungendo dalla stessa scuola dei Parliament-Funkadelic che ha visto nascere Ramon “Tiki” Fulwood e Jerome Eugene “Bigfoot” Brailey, Dennis Chambers combinava l’attitudine per il funk di questi musicisti con la fusione di Tony Williams, ispirando, in cambio, innumerevoli batteristi gospel e hip-hop. Lavorando come batterista per l’etichetta Sugar Hill (Chambers ha suonato su “Rapper’s Delight”) e accanto al chitarrista jazz-funk John Scofield, l’artista di Baltimore ha sviluppato uno stile che si basava su groove esplosivi e scottanti fills che ricordavano Buddy Rich e sembravano sfidare il concetto stesso di tempo. (Il talentuoso Travis Barker dei Blink-182 ha così riassunto il suo ascendente: “Mi è sempre piaciuto Dennis Chambers, è molto appariscente.”) Dagli anni ’90, Chambers ha suonato spesso con Carlos Santana, Steely Dan e John McLaughlin, mentre lavorava come bandleader. Gli album da solista di Chambers — come Big City, Getting Even e Outbreak — sono purtroppo esempi ignorati delle sue potenti percussioni e delle sue abilità di compositore.

62. Tony Thompson

Tony Thompson ha fornito gli spietati groove in four-on-the-floor grooves per gli Chic, una delle band più scatenate nell’epoca della disco. La sua reputazione crebbe a dismisura negli anni ’70 ma la sua influenza proseguì fino agli ’80, in inarrestabili valanghe pop come “Addicted to Love” di Robert Palmer, “Let’s Dance” di David Bowie e “Like a Virgin” di Madonna. Thompson fu addirittura preso in considerazione come rimpiazzo per il deceduto John Bonham quando si vociferava di un revival dei Led Zeppelin. E, naturalmente, ha contribuito con il suo groove alla versione originale di “Good Times,” la canzone degli Chic ripreso da tantissimi batteristi come il fondamento per la prima ondata di album rap e tagliuzzato in “The Adventures of Grandmaster Flash on the Wheels of Steel.” “In tutti questi anni, la gente voleva creare sample dalla mia musica. Tutti hanno sempre ipotizzato che ci fosse qualche trucco speciale,” ha detto Thompson a Modern Drummer. “Alla fine non si trattava d’altro che di un kit Yamaha nuovo di zecca in uno studio di mattoni. Ho colpito le percussioni con molta forza. Ecco tutto!”

61. Clem Burke

Clem Burke dei Blondie portò un ritmo inaspettato al punk crudo e al New Wave che negli anni ’70 si sentivano ruggire nei locali di New York come il CBGBs. Dopotutto, la band intitolò l’album che li portò al successo Eat to the Beat — e la combinazione tra un backbeat nitido e un dinamico infuriare di colpi ispirato da Keith Moon, fece sì che i Blondie si distinguessero dalla massa. Con Burke dietro la batteria, i Blondie inserirono parimenti nei loro successi disco groove e reggae e ritmi hip-hop. Possedeva inoltre una presenza ed un carisma atipici per un batterista. “Gli piaceva saltare dall’altra parte della batteria abbastanza spesso,” ha detto la cantante Deborah Harry al Chicago Tribune. “Clem faceva la sua comparsa, ed era un’autentica star. Suonava e tu sapevi che quella era la sua vita.”

60. Mick Fleetwood

Insieme all’amico e collega nella sezione ritmica John McVie, Mick Fleetwood è rimasto una costante nelle varie trasformazioni della band che porta il suo nome, dal blues-rock alla fine degli anni ’60 di Peter Green al pop adulto dell’attuale ensemble Stevie Nicks–Lindsey Buckingham. La personalità ritmica di Fleetwood si evince da ogni parte dell’iconico best-seller della band, Rumours: Il fill di classe che introduce “Dreams” è orecchiabile come qualsiasi ritornello, ed il violento contrappunto sul tom-tom che offre alla chitarra ritmica di Buckingham è essenziale in “Go Your Own Way.” Buckingham ha lodato lo stile “istintivo” di Fleetwood e racconta una storia sul particolare break con il campanaccio che il batterista ha aggiunto al primo singolo della band, “Oh Well.” “Mick l’ha fatto improvvisando e quando ha cercato di ripeterlo, non c’è riuscito! Gli ci è voluta una settimana di prove per imparare quel che aveva fatto in un momento.” Come artista, lo stile istintivo e la gioia quasi infantile che Fleetwood sfodera dietro la batteria, restano ad oggi intatti.

59. Jim Gordon
Il protetto di Hal Blaine era tra i turnisti più richiesti degli anni ’60, suonando la batteria per le opere più disparate da Pet Sounds a “Classical Gas.” In tour Delaney & Bonnie, Gordon incontrò Eric Clapton, che reclutò il batterista (e molti dei suoi colleghi nella band) per formare Derek and the Dominoes. La combinazione tra la sensibilità tutta blues e la finezza professionale di Gordon dà la spinta al classico doppio LP Layla and Other Assorted Love Songs. Gordon incise in seguito con artisti del calibro di Randy Newman e Steely Dan, e divenne una figura insolita nell’ascesa dell’hip-hop quando il DJ Kool Herc iniziò ad ispirare i ballerini del Bronx con il break di Gordon in “Apache” degli Incredible Bongo Band. “Tutti cominciarono a cercare il beat perfetto, tentando di superare quel pezzo,” ricorda Herc. “Ad oggi non ci sono ancora riusciti.”

58. Sheila E.
Nata Sheila Escovedo, figlia del percussionista Pete Escovedo, Sheila E. era un prodigio della batteria che giovane si esibiva con personaggi del calibro di Marvin Gaye e Herbie Hancock. Ha raggiunto la fama portando il suo vivido, immacolato stile poliritmico alla band di Prince dopo i Revolution, alla fine degli anni ’80, contribuendo alla definizione di rock, pop e R&B di quella decade. Certo, ha anche cantato da solista in successi come “The Glamorous Life” del 1984, ma è la sua eminenza come batterista, tuttora richiesta, che ne ha assicurato il retaggio musicale.” È molto interessante che tutti dicano che [Prince] mi ha influenzata, quando in realtà sono stata io ad influenzare lui per prima,” ha detto a Fox News. “Quando mi sono apprestata a presentarmi lui sapeva già chi fossi, cosa che mi ha scioccato, e lui ha detto, ‘So già chi sei. Seguo la tua carriera da molto tempo, sei straordinaria e sarei felicissimo se suonassi nella mia band.'”

57. Manu Katché

Tra la fine degli anni ’80 e i primi anni ’90, artisti come Peter Gabriel e Sting si rifiutarono di starsene tranquilli sul piano del ritmo; così convocarono il super dinamico batterista Manu Katché, francese nato in Costa d’Avorio, affinché traducesse le loro immense visioni dai toni folk. Immediatamente riconoscibile dal suo complesso utilizzo dei piatti splash ed i battiti sincopati, dona il ritmo dell’Africa occidentale a “In Your Eyes” di Gabriel ed il groove trip-hop groove a “Digging in the Dirt” del cantautore. Per la schizofrenica “Englishman in New York” di Sting, si alterna tra un reggae leggero, break in stile jazz e la potenza dell’hip-hop di metà anni ’80 con l’agio di un DJ. “Quando abbiamo fatto il tour per l’Amnesty [nel 1986], ho chiesto a Manu Katché se potevo sedermi dietro di lui per osservarlo,” ha detto Larry Mullen Jr degli U2. “Lui si è impressionato e non sapeva cosa volessi fare, ma io volevo solo vedere come lavorano i batteristi veri!”

56. Richie Hayward

Come batterista per la boogie band surrealista Little Feat, Richie Hayward tendeva a suonare sopra, sotto e tutt’intorno al ritmo. Dopo aver risposto all’annuncio di Lowell George sul L.A. Free Press (“Batterista cercasi — stravaganza richiesta”), Hayward ha accettato sia il successo di critica che l’insuccesso commerciale dei Feat. Come prima forza motrice della band, ha trasformato i Little Feat, in una versione colorata, vivace e ballabile della musica proto-americana, seria e dalle tinte seppia, della band. Secondo il batterista dei Phish Jon Fishman, “Il modo più facile per predire cosa avrebbe suonato in qualsiasi momento era quello di ascoltare l’enunciazione del testo.” Hayward guidava con la sua batteria le strutture poco ortodosse e caotiche delle canzoni prog-boogie dei Feat aggiungendovi acute armonie vocali. Ha aggiunto al loro sound uno slide di marca blues tipico della Louisiana, dando il via al funk caratterizzato da un modo di suonare in second line che avrebbe reso suoi fan futuri datori di lavoro come Robert Plant e Bob Dylan.

55. Max Weinberg

Nella primavera del 1974, Max Weinberg vide un annuncio nel Village Voice che Bruce Springsteen e la E Street Band erano alla ricerca di un nuovo batterista, avvertendo potenziali candidati che non volevano un imitatore di Ginger Bakers. Weinberg era un giovane dalla solida formazione musicale e la mano ferma, immerso nelle orchestre di Broadway: in altre parole, l’assoluto opposto dell’inarrestabile batterista dei Cream. Stupì Springsteen in un’audizione e fu assoldato proprio quando i lavori su Born to Run erano appena iniziati. È impossibile immaginare come sarebbe stato quell’album senza il ritmo inquieto di Weinberg — più vicino nello spirito ai re della sala di registrazione degli anni ’60 che ai giganti delle arene degli anni ’70 — e dopo il successo ottenuto, il batterista si ritrovò a lavorare con tantissimi altri da Meat Loaf a Bonnie Tyler. Quando la E Street Band si sciolse nel 1989, trovò impiego come bandleader per Conan O’Brien, anche se al riformarsi della band nel 1999, riuscì a gestire entrambi i ruoli nel mezzo dei suoi innumerevoli impegni. “Max ha trovato un punto in cui Bernard Purdie, Buddy Rich e Keith Moon si incontrano, e l’ha fatto suo,” ha detto Bruce Springsteen nel 1999 durante il suo discorso di accettazione al Rock and Roll Hall of Fame. “Io chiedo e lui ad ogni serata non mi delude mai .”

54. Ahmir “Questlove” Thompson

Ahmir Thompson ha assunto molti ruoli — super produttore di neo-soul, eclettico scrittore, bandleader da talk show, super fan di altre celebrità — ma queste opportunità si sono presentate perché è innanzitutto un versatilissimo batterista la cui performance ha superato di volta in volta le aspettative. Le bocche che si erano storte all’idea di una “live-band hip-hop” sono rimaste aperte quando in “You Got Me” dei Roots il ritmo costante di Thompson accelera trasformandosi nell’irrequieto breakbeat che i produttori di drum ‘n’ bass hanno sempre creato elettronicamente. Il Tonight Show With Jimmy Fallon potrebbe essere un modo per far soldi facili, ma ogni notte lui lo affronta come una sfida dove aggiunge nuove pagine alla sua enciclopedia ritmica che è in continua espansione, accorpandola perfettamente con lo stile dell’ospite di turno. “È questo che rende Ahmir uno forte,” ha detto al New Yorker il chitarrista Charlie Hunter, che ha lavorato con all’iconico LP di D’Angelo, Voodoo. “Riesce a suonare in perfetta sintonia con gli altri e a prendere il controllo e visualizzare il quadro generale.”

53. Jimmy Chamberlin

Secondo il leader degli Smashing Pumpkins Billy Corgan, Jimmy Chamberlin si presentò alle sue prime prove “indossando una T-shirt rosa, jeans slavati e capelli in stile mullet. … Noi pensammo, ‘Non è lui.’ [Invece] aveva imparato tutte le nostre canzoni, e dopo una sessione di prove, eravamo pronti a suonare. È bravo a tal punto.” A differenza degli Zeppeliniani degli anni del grunge come Dave Grohl dei Nirvana e Matt Cameron dei Soundgarden, Chamberlin suonava come un musicista tutto d’un pezzo che ha imparato tanto dal jazz, suggerendo una profonda familiarità con meticci musicali come Dennis Chambers e Lenny White dei Return to Forever. Riempiendo Siamese Dream del ’93 con rullate compatte e Mellon Collie ed Infinite Sadness del ’95 con fervore orchestrale, è diventato intrinseco al sound della band come la catena di pedali di Billy Corgan. “Non puoi semplicemente afferrare qualcuno e dirgli, ‘Suona la batteria su questa canzone degli Smashing Pumpkins,'” ha detto Corgan a USA Today. “Le parti alla batteria di Jimmy hanno una tecnica così raffinata e sono così piene di sfumature che solo un gruppo molto ristretto di persone potrebbe suonare al posto suo.”

52. Matt Cameron

Più di ogni altro batterista, Matt Cameron ha posto le fondamenta ritmiche per la rivoluzione del rock degli anni ’90, riconciliando l’aspetto tecnico del prog con una potenza travolgente. Descrisse perfettamente i suoi ritmi a lama rotante nel pezzo “Jesus Christ Pose” dei Soundgarden del 1991 come un “puro assalto dei sensi,” ma quell’efficiente brutalità non era per forza caratteristica del lavoro di Cameron con la band – la sua batteria in Superunknown è tanto riflessiva quanto robusta, dalla fluida asimmetria di “Spoonman” al backbeat fermo di “Fell on Black Days.” Vent’anni dopo l’uscita dell’album, Dave Grohl ne tesseva ancora le lodi, “Nessuno suonava la batteria come Matt.” Quando i Soundgarden si sciolsero all’improvviso nel 1997, Cameron non rimase disoccupato a lungo: i Pearl Jam lo invitarono l’anno seguente al loro tour. “Non cercarono affatto di limitarmi,” ha detto ad un giornalista agli albori della collaborazione che tuttora perdura. “Diciamo che sono famoso perché suono dei fill insoliti, allucinanti, e perché a volte suono cose che non dovrei suonare, ma a loro questo piaceva tantissimo — almeno è quel che mi hanno detto.”

51. Alex Van Halen

Le colossali ambizioni e l’agilità da jazzista di Alex Van Halen hanno fatto dei Van Halen una delle band più vibranti del rock — milioni di giovani batteristi da tutta l’America sono impazziti negli anni ’80 cercando di replicare il suo lavoro rapido sul tom-tom ed il suo swing galoppante in “Hot for Teacher” o il complicato groove d’apertura di “Finish What You Start.” Erano notevoli anche la sua devozione e la sua perseveranza: Un articolo di Rolling Stone del 1984 descrive un’esibizione in apertura per i Rolling Stones in cui Alex suonò con la mano fratturata in quattro punti. “Non riusciva neppure a tenere una bacchetta,” scrisse la giornalista Debby Miller. “Così l’ha legata al polso con un laccio delle scarpe e ha continuato a suonare.” Van Halen ha attribuito la scelta della sua carriera all’infanzia: “[Mio padre] era un musicista, ed è difficile da spiegare a parole, ma i musicisti sono diversi da chi ha un posto fisso,” ha detto a Kurt Loder di MTV nel 1991. “La mentalità è diversa … l’intero pianeta è casa tua.”

50. Cozy Powell
Dal momento del suo esordio sulle scene con il Jeff Beck Group nel 1970, Colin Trevor “Cozy” Powell si è guadagnato una reputazione di discreto batterista e turnista di prima scelta, una potente figura chiave vitale per lo sviluppo dell’hard rock e dell’heavy metal inglesi. Pur creando regolarmente dei progetti tutti suoi, Powell è soprattutto ricordato come una preziosa risorsa per gruppi come Rainbow e Whitesnake; come un terzo dell’ensemble di breve durata Emerson, Lake & Powell; e come una forza guida per i Black Sabbath dei tempi più recenti, tanto malignati sul piano critico quanto innegabilmente importanti. In un’intervista del 1999, Emerson ha ricordato come durante delle prove Powell avesse assemblato il suo kit mastodontico, per poi rendersi conto di aver dimenticato le bacchette: “Aveva pensato di usare dei rami caduti nel mio orto, fino a che un contadino del posto non è andato in città a prendere delle bacchette vere. Non erano del peso giusto, ma funzionavano quando le manteneva al contrario, usando l’estremità più spessa. Poi aveva fatto il suo assolo, ed era stato come se fosse scoppiata la Seconda Guerra Mondiale.”

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