"How to Dismantle an Atomic Bomb" degli U2 è in edicola: la recensione storica di Rolling Stone | Rolling Stone Italia
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“How to Dismantle an Atomic Bomb” degli U2 è in edicola: la recensione storica di Rolling Stone

Un cofanetto raccoglie tutti i dischi della band di Bono e soci, e oggi con TV Sorrisi e Canzoni è possibile acquistare l'undicesimo album in studio degli U2

Un dettaglio della copertina di How To Dismantle An Atomic Bomb, l'undicesimo album degli U2

Un dettaglio della copertina di How To Dismantle An Atomic Bomb, l'undicesimo album degli U2

Arriva in edicola l’intera opera degli U2 all’interno di un cofanetto che comprende tutti gli album in studio, un cd live e 4 dvd live, in edizione digipack, ripubblicata da Tv Sorrisi e Canzoni, in collaborazione di Corriere della Sera e della Gazzetta dello Sport. Oggi esce in edicola l’undicesimo disco in studio della band di Bono, How to Dismantle an Atomic Bomb, e questa è la recensione apparsa su Rolling Stone US nel 2004.

Verso metà dell’eccezionale nuovo album degli U2, Bono proclama: «Mi piace il suono della mia voce». Ben detto, ragazzo, ben detto. Da quando gli U2 hanno iniziato a fare casino, diverse centinaia di sanguinose domeniche fa a Dublino, Bono si è goduto il ritmo del suono della propria pantagruelica anima rock. Come dice il proverbio Zen, non troverai nessun uomo ragionevole in cima alle grandi montagne, e la genialità degli U2 sta nel loro rifiuto di essere una band ragionevole. Gli U2 erano una palla negli anni ’90, quando stavano provando a essere dei cool e ironici hipster. Nessuno vuole un Babbo Natale magro così come è dannatamente certo che nessuno vuole un Bono in versione hipster. Noi lo vogliamo sopra le righe, mentre gioca con il “fuoco indimenticabile”. Lo vogliamo mentre canta in latino o mentre nutre il mondo o quando gioca a fare Gesù per i lebbrosi nella sua testa. Noi vogliamo che lui sia Bono. Nessun altro è neanche lontanamente qualificato per questo ruolo.

Per How to Dismantle an Atomic Bomb gli U2 hanno portato il loro fervore old-school. L’ultima volta che avevamo avuto loro notizie, con All That You Can’t Leave Behind, gli U2 stavano facendo i colloqui per il lavoro di Band Rock & Roll Più Grande Del Mondo. Avevano tagliato lo sfarzo Euro-techno, velocizzato le tempistiche e lasciato che The Edge definisse le canzoni con la sua chitarra finalmente rinata. Beh, erano stati assunti.

Con Atomic Bomb non stanno facendo più colloqui. Questa è musica grandiosa fatta da uomini grandiosi, spietatamente sicuri di se stessi nell’eseguire il proprio dovere. Praticamente nessuna delle undici canzoni dell’album supera la soglia dei cinque minuti o si allontana dalla formula vincente sperimentata in All That You Can’t Leave Behind. Hanno superato l’ansia di metà carriera di dover essere sempre abbastanza fighi. Ora, hanno messo tutto nelle mani di The Edge e lasciato che le cose andassero da sole al loro posto.

Durante Atomic Bomb, sarete spinti a riflettere sulla morte (Sometimes You Can’t Make It On Your Own), sulla nascita (Original of the Species), su Dio (Yahweh), sull’amore (A Man and a Woman), sulla guerra (Love and Peace or Else) e sulla pace (City of Blinding Lights), che ti dà giusto il tempo di riflettere se il bassista abbia ascoltato o meno gli Interpol. Vertigo imposta il ritmo con un jingle da spot pubblicitario che esplode in tre minuti grandiosi, con un riff intaccato da Dirty Boots dei Sonic Youth. City of Blinding Lights inizia con un lungo intro di chitarra di The Edge, costruito su di un lamento dolce-amaro. Yahweh continua la tradizione U2 della chiacchierata di fine album col Signore. È un troppo lunga e troppo lenta, ma questo fa parte della tradizione.

Come tutti gli album degli U2, Atomic Bomb ha i suoi passi falsi, le sue parentesi sperimentali e momenti in cui le ambizioni si schiantano contro il muro più vicino. Così come l’America barcolla come un punk ubriaco in altri quattro anni da cui non riusciamo a uscire, sarebbe un vero piacere se la melodia della polizia avesse una qualche profondità. “How long? How long must we sing this song?…”, “Per quanto tempo? Quanto tempo ancora dovremo cantare questa canzone?”. Ma Bono va a segno con One Step Closer, una ballata intima sulla morte di cancro del padre nel 2001; Sometimes You Can’t Make It On Your Own è la canzone che gli U2 fecero al funerale. Quando Bono canta: «Tu sei la ragione per cui ho le opere in me», il suo dolore e la sua grandiosità sembrano provenire dallo stesso posto nel suo cuore. È un promemoria del fatto che ciò che rende gli U2 così grandi non sono in realtà le loro idee argute, né la loro intelligenza – è il calore che la maggior parte delle rock star non ha alcuna idea di come trasformare in musica.

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