Intervista a Highsnob, l'immortale del rap tra Kanye e Drake | Rolling Stone Italia
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Intervista a Highsnob, l’immortale del rap tra Kanye e Drake

Il rapper torna con un nuovo album che è la sfida più grande della sua carriera e, dopo le liti con Fedez, è arrivato il momento di dedicarsi ai senzatetto per dare l'esempio.

Se non siete particolarmente fanatici della scena rap italiana, è probabile che non abbiate (ancora) sentito parlare di Mike Highsnob. Oppure che vi sia capitato per una di queste due ragioni: 1) come 50% del duo Bushwaka, che era parte della scuderia Newtopia, 2) come protagonista di una diatriba legale con Newtopia, che nel 2017 lo ha citato in giudizio dopo alcune dichiarazioni su Volare di Rovazzi, che a suo dire sarebbe molto simile alla sua Fa Volare (oltre a questo pare che anche alcune sue rime del brano Fisher Price avessero dato fastidio: “Viva l’Italia dei rapper pacco, uno di questi era il mio capo / Per uscire dal suo contratto sai la merda che ho mangiato?”). Nonostante tutto, però, non gli è passata la voglia di dire a chiare lettere quello che pensa, indipendentemente dal fatto che gli convenga o meno: lo fa nel suo primo album solista, BiPopular, in cui tra le altre cose parla del suo disturbo bipolare ben prima che lo facesse Kanye, e anche in questa intervista, in cui racconta senza filtri del suo rapporto con l’età, con la musica, con il marketing e perfino con i tatuaggi in luoghi molto visibili.

Se dovessi raccontare cos’hai di diverso rispetto agli altri tuoi colleghi, magari molto più giovani di te?
Diciamo che ho fatto un mash-up di tutte le correnti del rap che andavano forte negli anni in cui sono cresciuto. Ho la fortuna di avere un’ottima memoria, quindi mi capita di uscirmene con frasi tipo “Perché non usiamo lo stesso synth di quel pezzo del 2003, ma attualizzandolo al 2018?”. Oltretutto amo un sacco di generi musicali diversi: techno, garage shuffle… Cerco di essere sempre attuale e non mi focalizzo sulle mode del momento.

Questo è il tuo primo progetto solista nella veste di Mike Highsnob…
Il mio primo vero disco in effetti è arrivato nel 2008, con un altro pseudonimo, ma ho sempre avuto un approccio molto pragmatico alla musica: se una cosa non funziona, lascio perdere e passo oltre. Un po’ come se fosse un’azienda: se apri una pizzeria e fallisce perché quello che proponi non piace, tanto vale cambiare tutto l’approccio, trovarle un nuovo nome, darle una nuova veste. Perciò ho avuto diversi gruppi e progetti solisti fino al periodo Bushwaka, che è stato quello con cui mi sono fatto notare di più. Per me quest’album è una specie di terapia d’urto: siccome ai rapper piace raccontare la strada, anche a quelli che dalla strada proprio non vengono, ho pensato che visto che io arrivavo davvero da lì, tanto valeva che lo facessi anche io, ma a modo mio, con ironia. Nonostante i miei genitori siano ottime persone, io ho scelto una strada diversa e sono cresciuto un po’ come un randagio, e ci sono voluti parecchi sacrifici per riprendere la retta via.

Per fare l’avvocato del diavolo, però, non hai mai paura che il fatto che il tuo progetto sia così curato in tutto (l’immagine, il sound, i molti cambi di rotta di cui parlavi prima) penalizzi un po’ la spontaneità e l’autenticità, agli occhi del pubblico?
No, per il semplice fatto che in realtà è tutto molto spontaneo: ho iniziato a fare musica molti anni fa e ho avuto la fortuna che diventasse il mio lavoro, ma mi sento di rappresentare solo me stesso e quello che sono. Difficilmente la gente riuscirebbe a dire che non sono autentico, perché sono me stesso al 100% e non m’invento nulla. E se passa il messaggio che sto attento a ogni mia mossa, meglio: in fondo io sono fatto così. Credo che alla lunga il fatto di pensare ai miei album come se fossero dei business plan abbia funzionato, perché oggi un sacco di gente che mi ha scoperto come Mike Highsnob si chiede dov’ero fino all’anno scorso, ed è ancora più incuriosita.

L’altra cosa che ha incuriosito molto la gente è stata la tua diatriba legale con la Newtopia di Fedez: com’è andata a finire?
Sto cercando di chiudere questo capitolo e andare avanti. Spero di voltare pagina molto presto.

Come te la vivi, nel frattempo? Quando avevi appena ricevuto la querela, avevi pubblicato sui social un video in cui sembravi parecchio incazzato…
Per me è una storia che è nata lì ed è morta dopo qualche giorno, quando ho pubblicato La tocco piano, la canzone in cui commentavo la vicenda. Credo molto nel karma, però: con quella querela volevano rovinarmi o comunque mettere in atto una specie di ripicca, ma in fondo è stato un autogol, perché la mia musica ha avuto ancora più eco. Anzi, il fatto che io me ne sia uscito con un pezzo di quel livello, scritto apposta per l’occasione, in meno di una settimana, ha fatto capire a tutti le mie capacità.

Questa storia ha influito sulla tua decisione di autoprodurre Bipopular, anziché affidarti a un’etichetta strutturata?
No, assolutamente: sono uscito da indipendente perché essendo il mio primo disco non c’era ancora interesse da parte delle major. In futuro, se le cose andranno bene, sicuramente andrò in quella direzione. E poi, nel rap bisogna concretizzare le proprie idee velocemente, perché altrimenti qualcun altro lo farà al posto tuo. In questo momento non avevo il tempo di stare ad aspettare le tempistiche di un’azienda grande, dovevo pubblicare un album nel giro di sei mesi, anche perché ho trent’anni e passa e quindi il momento giusto era questo.

Questo è un po’ un tasto dolente: ultimamente sembra che per molti, se hai più di venticinque anni, nel rap sei già un vecchio…
In effetti, se guardi su Google, il primo suggerimento di ricerca correlato a “Mike Highsnob” è “età”, perché per un po’ non ho rivelato quanti anni avevo: sarebbe stato penalizzante. Oggi un po’ me ne frego, perché il fatto di essere più forte di tanti ragazzini lo dimostro sul campo. E non è neanche questione di numeri, ma del tipo di pezzi che propongo e di come so tenere il palco.

Una cosa che non c’entra molto con la musica: anche tu fai parte del club dei rapper che hanno un tatuaggio in faccia, e sei tra i pochissimi ad aver dichiarato con molta onestà di averlo fatto per attirare l’attenzione.
Per me il pubblico non è una massa informe, ma un insieme di singole persone che devi guardare negli occhi e a cui non devi raccontare cazzate. Quindi sì, la verità è che avevo bisogno di farmi notare. All’epoca ancora non lo aveva fatto nessuno qui in Italia, e un tatuaggio sulla fronte fa subito effetto, in questo senso: se entri in un locale, la gente si gira immediatamente a guardarti. Era una sorta di cartello promozionale, ma la cosa buffa è che ai tempi non c’era ancora nulla da promuovere, perché non erano ancora usciti pezzi solisti a nome Highsnob. Dopo il periodo Bushwaka ho perso dieci chili e ho tagliato la barba, nessuno mi riconosceva più; l’ho fatto con un senso un po’ poetico, di sfida. Ora, quando mi alzo ogni mattina e mi guardo allo specchio, mi dico “Anche oggi devi farti il mazzo e spaccare, perché domani non potrai mai più andare a lavorare in banca, se non funziona”. È comodo fare gli splendidi e tatuarsi in faccia quando sei già famoso, ma ci vogliono le palle per farlo quando ancora non sei nessuno.

Sempre senza essere nessuno (o meglio, senza essere un multimilionario) hai fatto la stessa cosa che Drake fece per il video di God’s Plan: distribuire un sacco di soldi ai senzatetto di Milano. Come ti è venuta l’idea?
Dopo aver visto i primi ragazzini che mi imitavano quando parlavo di lusso, locali, droga e stronzate, ho capito che forse, anche se tutta ‘sta roba mi piace e continuerà a piacermi, tanto vale orientarli un pochettino di più sull’altruismo. Ho pensato: se oggi i miei fan si avvicinano ai live per fare vedere che si fumano un cannone come me, o che hanno una maglietta firmata come me, magari se comincio a distribuire dei soldi ai poveri, anche stavolta faranno come me. È una sfida molto complicata, se devo essere sincero, perché lo spirito della crocerossina non piace a nessuno: rendere cool una cosa del genere è molto difficile. Non succederà dall’oggi al domani, ma si può provare, nel nostro piccolo. Sono del parere che, se anziché spendere 30.000 euro per fare pubblicità mirata sul web, li si spende per fare del bene, il ritorno sarà molto maggiore. E molto più sano. Spero che in tanti copino quest’idea, perché quello che conta in questo caso è il fine ultimo, che è davvero nobile.

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