Rolling Stone Italia

Gomorra Trap

Per le strade di Secondigliano e Scampia con Vale Lambo ed Enzo Dong, dove nasce il sound della nuova Napoli. Tra legalità e illegalità, passato e futuro

Vale Lambo a Secondigliano. Foto di Mattia Panunzio

«Vorrei scrivere un libro sugli angeli», mi dice Vale Lambo quando ci incontriamo; ho in mano anche io un libro che parla di un angelo, che ho preso dalla libreria questa mattina mentre continuavo ad ascoltare in loop il suo ultimo album, Angelo, e finirò per lasciarglielo, come un regalo a un parente a cui si è venuto a fare visita. Perché Vale Lambo è subito affabile, quasi cortese, la vocazione meridionale all’ospitalità è più forte dell’idea di essere lui l’artista da intervistare («Volete mangiare una cosa in pizzeria?», ci offrirà da mangiare in un posto dove non ci permettono di pagare); si è presentato con un suo amico, ha la tenuta di ordinanza da rapper con i pantaloncini corti rossi come le sneakers e la maglietta larga che potrebbe stare bene con l’aria indolente di qualunque borgata planetaria: «Ma voi siete di Roma?», mi fa, «Siete mai stati a Napoli?», che sembra una domanda ingenua, ma non lo è così tanto, perché essere stati a Napoli anche mille volte non vuol dire aver visto Scampia o Secondigliano, ed essere disorientati quando ci dice: «Mo’ andiamo nelle palazzine».

Le palazzine sarebbero le Case celesti, un quadrangolare di edifici color pastello che sono pannelli di uno sfondo teatrale, al centro una parodia di anfiteatro con i gradoni, dove si può immaginare si giochi un’infinita partita di torello, e dove tutto avrà al massimo qualche decennio ma è nato già guasto, invecchiato, dismesso: la chiesa evangelica su di un lato, lo spazio per i giochi dei bambini, un murales brutto con Massimo Troisi e Pino Daniele. Vale avverte prima che stiamo arrivando, un suo amico va in avanscoperta a bonificare la zona; così quando arriviamo e ci mettiamo a parlare al sole implacabile dell’una, che si riflette come fosse un faro da set sul cemento tutto imbiancato, le persone ci guardano affacciate di sbieco ai balconi o da dietro le persiane abbassate. Con la fotocamera non possiamo riprendere nessuno, a parte lui, Vale Lambo. L’autoctono e lo straniero. L’angelo, appunto.

«Sono nato all’ospedale dei Colli Aminei, poi ho vissuto a Secondigliano, perché mia madre non aveva casa, vivevamo dalla madre di mia madre; mi ebbero in giovane età, mio padre faceva l’elettrauto, ma poi non arrivava a fine mese, e ha deciso di cambiare proprio, adesso fa il camionista. Ho fatto l’asilo a Villaricca sempre perché non avevamo casa, poi ci siamo spostati a Secondigliano, ho fatto qua tutto, elementari, medie, fino alle superiori: ho fatto l’odontecnico, e mi piaceva il fatto di disegnare i denti, coi denti di ceramica ero pure bravo, ma poi andai a fare uno stage di tre mesi, e cosa succedeva? Io facevo i denti per questo dentista, lui li metteva in bocca ai pazienti, però io non prendevo un soldo, quindi decisi di smettere». «Quanto costa una casa qui?». «Con venti, trentamila euro te la fai».

Vale Lambo a Secondigliano. Foto di Mattia Panunzio

La vocazione della musica è raccontata sempre come la vocazione a non diventare un criminale. «Mi dicevano di scendere per fare una roba, io dicevo che dovevo sentire un pezzo». L’illegalità è sempre definita con eufemismo – quelli che non fanno cose buone, i ragazzi che si sono persi, quelli che hanno preso una strada sbagliata. «Il quartiere è cambiato un sacco, da quando avevo quattordici anni, noi qua non potevamo nemmeno stare». Però crescere con la gente che si spara sotto casa ti dà una specie di tensione elettrica, e i ricordi dell’infanzia non si possono certo scegliere: «Quando ero piccolo ero un po’ mentalizzato, mi divertiva sta cosa, e chissà che vita facevo se non avessi avuto una mente che riconosce il telefilm dalla realtà, la Gomorra che tieni davanti tutti i giorni e quella che vedi in televisione». A opporsi alle leggi non scritte del quartiere, che è come dire il fato, possono essere solo le famiglie («e per me sono un conte- sto sacro») o meglio le donne di famiglia. Una cultura tutta matriarcale; anche Ghali o Sfera Ebbasta sono tutti a dedicare i loro pezzi alla mamma.

Qualche giorno fa Lorenzo Misuraca sul Lavoro culturale scriveva: “Non esiste un trapper che non abbia dedicato un verso d’amore e riconoscenza verso la propria madre. ‘Oh, fanno tutti i punk e poi sono dei mammoni’ è lo sfottò più comune. Anche qui, basta dare una veloce scorsa alla biografia dei più famosi trapper italiani, per vedere che hanno un dato in comune: sono stati tutti cresciuti dalla madre, con un padre assente, in alcuni casi violento, in condizioni economiche difficili. Donne forti che li hanno tirati su nonostante un Paese in cui una madre sola e povera non ha nessuno strumento di welfare a sostenerla e può contare solo sulla propria dignità e determinazione. Dunque, non la mammina che risolve i problemi al figlio di papà, ma una donna autonoma a cui aggrapparsi per non af- fondare. Figure di un’Italia poco raccontata e tutt’altro che eccezionale”.

Le palazzine celesti sono un posto che ho visto la prima volta proprio in un video di Vale Lambo, È meglio pe loro, in un bianco e nero cupo, e un testo in dialetto, cantato su una base rallentata, la faccia di Vale occultata dagli occhiali e il cappellino, ma senza un’ombra di barba, il corpo ancora un po’ scoordinato e in leggero sovrappeso, come un adolescente che sta cercando di capire qual è il suo posto invece del suo nascondiglio. È meglio pe loro è il pezzo che lo ha fatto conoscere a Don Joe e Gué Pequeno, un biglietto da visita, un ibrido strano, al limite del parodico, ma ha funzionato e si lascia ancora sentire. «Avevo diciannov’anni, lo caricai su YouTube, io facevo già rap ma mi inventai sta cosa un po’ cantata, viaggiata. Mi venne in mente perché volevo mescolare il melodico col rap, un pizzico di autotune». L’aveva visto fare negli States, mi confessa, da French Montana o da Chinx, per esempio. Ma a Napoli non c’erano precedenti espliciti: le fonti erano da una parte Franco Ricciardi («l’unico che si è saputo evolvere») e dall’altra i Co’sang («che facevano rap di strada»). Era l’uovo di Colombo, poteva essere la gallina dalle uova d’oro.

«Sta cosa cantata mancava a Napoli»: Vale Lambo mischia i suoi ascolti vecchi – la musica leggera che intercettava dalla madre (Adriano Celentano, i Pooh, Renato Zero, Lucio Battisti, “io mi ricordo che mi svegliavo la matti- na, metteva Mina e io cantavo con lei”) e dal padre (“non suonava ma ballava rock’n’roll, mi faceva sentire Elvis Presley, Ray Charles, Louis Armstrong, e diceva: questa è la musica che ti deve ispirare”) – con i cantanti napoletani con cui è cresciuto, in maniera bulimica: Pino Daniele, Mario Merola, Mario Nardi. «A diciassette anni dicetti ’a prima volta: voglio fare rap, ascoltavo Eminem, uscì 8 Mile, e lì rimasi proprio folgorato. Dissi “voglio fa’ il rap, voglio fa’ il rap”, ma mia mamma non ci credeva». Il primo pezzo che ha scritto è Night by Night, anche questo sta su YouTu- be; manco vent’anni e già versi notevoli, come “cammin sul rindo scur p chi nun ci cur sti dulur sta sicur ca ce dong crur”.

Se non fosse perché Vale rivela tutto in modo diretto, sembrerebbe anche più che consapevole che la sua ispirazione è un flusso che vive all’incrocio dei venti. Se non lo sa, almeno sente di fare parte della generazione cresciuta tanto con i pezzi messi a palla nei mercati che con quelli caricati su YouTube. Facile farsi venire in mente Simon Reynolds: ma in Retromania ha forse sottovalutato, parlando dell’aumento incommensurabile e insidioso del passato nel nostro immaginario sonoro, l’impatto del familismo, della tradizione, nelle tante terre del rimorso, come il Sud italiano, e soprattutto l’uso rituale del passato. La musica che fa Vale Lambo è non soltanto il mash-up di due tradizioni diffuse, dalle identità plastiche – neomelodico e rap – ma di due speculari confronti con il passa- to, quello retromaniaco e quello che descrive Ernesto de Martino nelle sue analisi del pensiero meridiano (“La terra del rimorso”, scrive nel libro omonimo, “o in un senso più ampio la terra del cattivo passato che torna e rigurgita e opprime col suo rigurgito”).

Vale Lambo con alcuni amici a Secondigliano. Foto di Mattia Panunzio

Quello che in Retromania viene definito come “presente lungo”, che fa precipitare il passato in un vuoto amnesico, riacquista paradossalmente spessore attraverso una rimemorazione liturgica. Nel libro che ho in mano e che gli lascio in regalo, Angelus Novus di Walter Benjamin, si parla di un quadro di Klimt, che si intitola proprio Angelus Novus: è il ritratto di un an- gelo che sembra stare per allontanarsi. Ha gli occhi spalancati, la bocca aperta, le ali distese. “Ha il viso rivolto al passato”, scrive Benjamin, “Dove ci appare una catena di eventi, egli vede una sola catastrofe, che accumula senza tregua rovine su rovine e le rovescia ai suoi piedi. Egli vorrebbe ben trattenersi, destare i morti e ricomporre l’infranto”. È l’angelo della Storia, chissà se Vale Lambo pensa di incarnare una figura del genere.

Perché se la sua consapevolezza poetica è sottintesa, la sua coscienza politica è invece netta e chiara nel descrivere il deserto in cui ha vissuto: l’assenza assoluta di qualunque Stato, di qualunque istituzione, la famiglia come un cordone sanitario minimale. «Non ho mai votato», mi dice, e lo sottolinea con un tono di un adulto suo malgrado che mi rimane in testa. E non è il qualunquismo del remissivo, è un tono d’accusa. È lo stesso identico tono che usa qualche giorno dopo Enzo Dong, «non ho mai votato», il rapper che da qualche mese ha fatto uscire il singolo del nuovo album che dovrebbe essere pubblicato a settembre, Ciro, forse la più paradigmatica cantata napoletana dedicata a un everyboy del quartiere: Ciro era un criminale ma non per me. Ciro che muore come si va a dormire, in un’indifferenza sociale che è un processo di muta stagionale. È morto per niente, muore un Ciro, nasce un altro Ciro.

Sia per Vale Lambo che Enzo Dong non c’è soluzione di continuità tra legale e illegale: all’esclusione della periferia, a quella del meridione, aggiungono l’epica dolente dell’esclusione generazionale, che è esattamente quella che fa sì che la loro musica – al contrario del neomelodico – stia travalicando i confini del Sud Italia. Non credono nei politici, accusano il contesto che andava al di là delle mura do- mestiche di averli traditi o forse di non averli nemmeno illusi.

Enzo Dong analizza per me come anche lui ha messo insieme rap e neomelodico. Il rap americano che ascoltava, oppure quello dei Co’Sang, quando aveva quindici anni, era considerata la musica dei tossici. Le cose cambiano quando avviene un passaggio di testimone, dai neomelodici (Maria Nazionale, Alessio, Raffaello) ai nuovi rapper, e il pezzo chiave è Prumesse mancate, che Franco Ricciardi decide di incidere proprio con Enzo Dong. La prima legittimazione non arriva nemmeno dalle visualizzazioni su YouTube, dal contratto con la Universal o dal riconoscimento da parte della scena rap italiana, ma dal mercato del giovedì e della domenica al Don Guanella: i banchi che si stendono da via Bakù fino a Scampia vendono frutta, carne, ma anche musica. Sono al tempo stesso lo specchio e lo stereo del quartiere: un giorno pompano Prumesse mancate. «Mettono a palla i pezzi con le casse enormi, alle volte dei dischi che manco esistono, tipo il mio, fanno le playlist: prima ci trovavi i neomelodici, mo’ ci trovi i pezzi miei, Higuain o Secondigliano regna. La gente ha capito che quella era la sua musica, anche se io non voglio essere un rapper che canta Napoli per Napoli, ma un rapper italia- no di Napoli».

Essere napoletani è un destino, Enzo Dong lo sa, se l’è tatuato persino nel nome – Dong sta per l’eponimo “Don Guanella” ma anche per l’acronimo “Dove Ognuno Nasce Giudicato”. Ed è per questo essere italiani è una conquista: un romanzo di formazione per cui va trovata persino la lingua. «Che rapporto hai con il dialetto?», gli chiedo. «Io in realtà, se facevamo quest’intervista tre anni fa, non riuscivo nemmeno a parlare in italiano. L’italiano è stata la mia seconda lingua, ed è il rap che mi ha aiutato a impararla, a usarla, nonostante il napoletano sia la lingua che parlo tutti i giorni».

L’amica geniale, la saga letteraria di Elena Ferrante che ha piazzato all’improvviso Napoli al centro dell’immaginario planetario, racconta di un’emancipazione che avviene attraverso la scuola; il racconto che fa di sé Enzo Dong sembra il negativo della stessa storia: «Io penso che le istituzioni scolastiche sottovalutino il talento dei ragazzi. Mi ricordo ancora quando andavo alle medie nel quartiere, c’era ancora una grande massa di ragazzi, tutti gli amici miei che per le istituzioni scolastiche dovevano solo diventare criminali. I professori davano per scontato che un ragazzo che non era interessato alle materie scolastiche fosse andato, e quello che doveva fare? Sfogava la sua frustrazione imitando gli idoli di quartiere».

Enzo Dong, foto di Mattia Panunzio

«La mia professoressa di matematica mi chiamava animale ogni giorno, mi offendeva appena entrava nella classe, e questa storia me la sono portata dietro, con rabbia. Mo’ magari se era un altro mio amico di quartiere finiva a violenza. Io invece mi sono tolto da quell’immagine perché avevo una specie di presentimento su di me, anche quando ho lavorato anche io illegalmente». «Cioè?». «Quando spacciavo». «E il mondo dell’illegalità ti ha insegnato qualcosa?». «Che la vita è una sola. E l’importante è non bruciarla. Capivi che con quella roba ti potevi permettere al massimo il T-Max, il giro con la macchina nuova, o pure di essere armato, ma oltre quello niente. Ho pensato che invece poteva essere diverso, che non sei segnato, e che anzi tu stesso puoi parlare di tutto: di famiglia, di violenza, di pedofilia, di sesso».

È vero che la scena della trap napoletana (da Liberato a Pupetta) non è una scena, anche se si conoscono tutti (e Misuraca lo dice bene: “Gli artisti trap semplicemente non si pongono la questione: soli sono nati, e soli devono riscattare la loro situazione. L’unico aiuto, l’unico supporto, è quello della gang, il gruppo di amici che siede sullo stesso mu- retto, e della famiglia”). Ma è vero anche che questa presa di parola simultanea fa massa critica: mai come oggi quei ragazzi che sono nati e cresciuti tra Piscinola, le palazzine celesti e le Vele di Scampia hanno coscienza della potenza della presa di parola.

Si muovono leggeri sulla terra, si sono scelti come alias delle figure senza identità, un angelo o un anonimo Ciro non fa molta differenza. Apolidi più che cittadini del mondo (Vale Lambo ha vissuto diversi anni in Inghilterra e tornava nei quartieri anche per una sera sola come se fosse il cortile di casa, Enzo Dong mi dice che quello che vorrebbe fare ora è staccarsi, viaggiare): se vivere è difficile, è più importante sopravvivere, e l’unico modo è sospendere lo sguardo, essere evanescenti, lontani e nostalgici. Come mi racconta Vale quando mi ricanta il ritornello di Perché. «L’ho scritto quando una volta stavo tornando a Londra. E dall’aereo potevo guardare i miei luoghi». E “Secondiglian a vec a luntan”, intona. Come l’angelo sopra Berlino di Wim Wenders, come l’angelo della storia di Benjamin, ho la sensazione che anche loro due vorrebbero non solo essere custodi di ciò che gli è caro, ma in un certo senso vorrebbero saper proteggere le loro terre guaste.

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