Go Dugong e il rito di ‘Shifumi’ | Rolling Stone Italia
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Go Dugong e il rito di ‘Shifumi’

In anteprima il nuovo video tratto da ‘Curaro’, l'album con cui il producer è partito tra sciamani e sintetizzatori.

Si dice spesso che l’arte dona, a chi ne fruisce, capacità di immaginazione altrimenti impensabili. Ecco perché, estraniandosi dalle mastodontiche sale Musée d’Orsay di Parigi, capita a volte di ritrovarsi a metà ‘800, insieme ai libertini ritratti da Manet in Le déjeuner sur l’herbe, o fra le vie dell’antica Pergamo appena solcato l’ingresso dell’omonimo museo di Berlino. Fra le varie arti, è probabilmente la musica quella che possiede le capacità immaginative più potenti, vuoi per la sua natura incorporea – come ha ripetuto più o meno tutta la filosofia –, vuoi perché tutti, almeno una volta, ci siamo immaginati la colonna sonora perfetta per le nostre imprese quotidiane, tipo quattro piani senza ascensore con il sacchetto compostabile della spesa che chiede pietà.

Insomma, non c’è niente come la musica per creare la giusta atmosfera che accompagni la nostra immaginazione, e lo stesso deve aver pensato il producer Giulio Fonseca, meglio conosciuto con lo pseudonimo Go Dugong, mentre componeva Curaro, il suo terzo album in studio. Oggi vi presentiamo in anteprima il nuovo video realizzato per Shifumi, singolo nato in collaborazione con Témé Tan, e portabandiera del suono vivisezionato da Go Dugong per il suo ultimo lavoro: un viaggio tra il sacro e il profano, tra sintetizzatori ed echi caraibicici, presi in prestito da riti misterici a 130 bpm. La sua performance al Mi Ami è stata una delle più trascinanti, e noi abbiamo colto l’occasione per fare quattro chiacchiere sulle sue influenze esotiche e sullo stato della musica elettronica in Italia.

Ascoltare Curaro equivale a gettarsi dentro un viaggio, tra popoli e suoni. Come ti eri immaginato la mèta?
Non mi sono mai dato nessuna meta in verità. Curaro è solo una parte di quel “viaggio” che ho intrapreso qualche anno fa con la pubblicazione di Novanta. Cambia però il paesaggio, che non è più urbano ma legato alla natura, alla terra come anche alle stelle. È il mio percorso artistico ad essere un viaggio, e mi piace lasciarmi trasportare da quello che verrà, da quelli che saranno i futuri stimoli che mi porteranno alla creazione di un nuovo lavoro. Al momento ci sono tante porte pronte ad essere aperte, aspetto solo il momento per decidere quale strada prendere.

Come ti approcci alla produzione? Parti da un ritmo, da un sample o da immagini?
La maggior parte delle volte parto da immagini, da storie da raccontare attraverso la musica e successivamente cerco di pensare al linguaggio migliore per trasmettere a chi ascolta le sensazioni che mi hanno ispirato. Curaro ad esempio è incentrato su credenze e mitologie tribali legate alla natura e allo spazio; credenze che spesso raccontano incontri ravvicinati con civiltà o creature provenienti da altre galassie che, dopo essere approdate sulla Terra, sono diventare vere e proprie divinità per le tribù che le hanno incontrate. Mi sono immaginato questo album come una sorta di colonna sonora per queste storie, che mi hanno molto colpito e affascinato.

Qualche anno fa, parlando di musica elettronica, si intravedeva la possibilità che nascesse una scena italiana. Dopo 3/4 anni credi sia ancora possibile parlare di scena? La maggior parte di quegli artisti non sembrano aver retto il calo di hype.
Non è una vera e propria scena, a mio avviso. Si può parlare di scena quando esiste una comunità di musicisti che negli anni “coltivano” un proprio suono così particolare e unico da essere esportato anche al di fuori dei confini nazionali. C’era e c’è ancora una bella comunità di producer e artisti che collaborano o che semplicemente sono legati da amicizia, stima e supporto reciproco. Purtroppo però non basta per parlare di scena. Bisogna fare qual passo in più che qualche anno fa, da sognatore, mi sembrava che sarebbe potuto succedere. Ancora però non è stato fatto, e quindi al momento mi sento di dire che c’è tanta gente parecchio brava in Italia, c’è un bellissimo clima artistico e di amicizia, ma ancora non si può parlare di scena.

Go Dugong, Popolous, Clap Clap, tre dei massimi esponenti dell’elettronica Made in Italy vanno alla ricerca di ispirazioni nei paesi caraibici o africani. Perché secondo te?
Per curiosità, voglia di esplorare territori musicali non nostri e creare delle commistioni nuove. È come viaggiare senza muoversi fisicamente, viaggiare con l’immaginazione e con la musica, conoscere nuove cose del mondo grazie alla musica. É molto bello e stimolante, ma personalmente non so se continuerò su questa strada. Qualche anno fa mi approcciavo a questi suoni con leggerezza, anche un po’ di ingenuità; ora mi faccio molte più paranoie sul materiale da cui attingo e a cui mi ispiro, specie se appartiene a una cultura che non è la mia. Credo che l’approccio migliore in questo momento sia quello di visitare realmente quei posti, relazionarsi con quelle persone e creare qualcosa insieme a loro. Se non “migliore”, più interessante, anche perché ormai sono un po’ di anni che mastichiamo suoni da tutto il mondo, e credo che queste influenze/sonorità siano un pochino più sdoganate. Quindi, se me la sentirò e se la vita me lo consentirà, mi piacerebbe fare un esperienza di questo tipo: altrimenti, sarò il primo a cercare nuove suggestioni.

Hai appena suonato al Mi Ami. Ti senti più vicino al pubblico dei concerti o credi che la tua musica sia più adatta a un club?
Mi sento più vicino al pubblico dei concerti. Non ho mai fatto musica da club come Go Dugong, anche se spesso mi sono ritrovato in quel tipo di situazioni. In un club mi sento più a mio agio con due cdj. Ultimamente sto portando avanti anche questa “nuova vita da dj” grazie a Balera Favela, insieme ai miei soci Ckrono, prp e Marcello Farno: una festa dai sapori global nata un anno fa a Milano e diventata ormai itinerante.

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