George Michael, 9 cose che abbiamo imparato guardando 'Freedom' | Rolling Stone Italia
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George Michael, 9 cose che abbiamo imparato guardando ‘Freedom’

Il nuovo documentario - in uscita oggi su Showtime - racconta i pericoli del successo e le insidie dell'industria discografica

George Michael, 9 cose che abbiamo imparato guardando ‘Freedom’

La maggior parte delle persone pensa a George Michael come all’uomo dietro un sacco di hit milionarie – molte delle quali sono in heavy rotation ancora oggi -, ma il documentario Freedom fa molto di più, dipingendolo come un guerriero nell’infinita battaglia contro l’industria discografica, un amante della musica soul e un difensore del diritto alla privacy degli artisti.

Freedom non è il solito documentario postumo: George Michael ci ha lavorato finché ha potuto, co-dirigendo e mettendosi in gioco come narratore. Nel film, in uscita su Showtime proprio oggi, fanno un’apparizione Nile Rodgers, Stevie Wonder, Mary J. Blige, Naomi Campbell e Kate Moss. Ecco le 9 cose che abbiamo imparato guardandolo.

Conosceva perfettamente i pericoli del successo, ma voleva comunque diventare una star

Il documentario chiarisce subito il tema centrale del racconto: «Il mio talento è stato alimentato dalla mia ambizione disperata, volevo essere famoso, amato, rispettato e tutto il resto», dice nel documentario. «Volevo il successo a tutti i costi».

«E quella strada non porta alla felicità, anzi», aggiunge. «Soffro ancora di insicurezza, odio il mio aspetto. È tutta colpa del mio background familiare, dove nessuno era contento di come appariva». Il fascino del successo l’ha definitivamente conquistato all’inizio degli anni ’80. «Non c’era modo di fermarmi, volevo diventare l’artista più venduto del mondo», ammette. «Quindi ho creato questo nuovo personaggio, qualcuno capace di competere con Madonna, Michael Jackson e Prince».

Nessuno ha capito la qualità della sua scrittura

Per George Michael essere un artista significava soprattutto una cosa: «Come vuoi essere ricordato?», gli chiede un giornalista alla fine di Freedom. «Come un grande autore», risponde. Non ha mai accettato il modo in cui sono stati accolti i suoi classici degli anni ’80. «Sapevo perfettamente quello che stavo facendo e sapevo anche come far diventare una canzone un trionfo commerciale», racconta. «Indossavo shorts ridicoli e nessuno mi prendeva sul serio».

L’appropriazione culturale

«Le canzoni di George Michael passavano sulle radio indipendenti dopo quelle di Luther Vandross», ricorda Blige. «La sua musica è stata importante per tutti». Nel documentario, però, si racconta nel dettagli l’incidente degli American Music Awards: George Michael fu premiato nella categoria Soul/R&B, generalmente dedicata solo agli artisti di colore. «C’è chi lavora davvero duro per arrivare nella categoria», diceva Gladys Knight nel 1990.

«Ho vinto due premi che di solito sono dedicati ad artisti neri, e in molti pensavano che avessi passato il segno», dice Michael. «Capisco il loro punto di vista adesso e lo capivo anche all’epoca. Mi sembrava una cosa molto triste, non ho mai voluto rubare nulla alla cultura afroamericana. Cercavo solo di scrivere bella musica».

Ha ottenuto il successo che desiderava, e la tristezza che sapeva avrebbe vissuto

«Non riesco davvero a spiegare quanto è stato difficile gestire il successo da solo», racconta Michael. «Quando ero con Andrew (Ridgeley, all’epoca dei Wham!) era più facile mantenere il controllo della mia vita precedente, la vita che avevo prima di diventare famoso. Era facile restare con i piedi per terra, guardarsi in faccia e parlare della follia che ci circondava. Quando non ho più potuto farlo è diventato tutto spaventoso. Dopo dieci mesi ero già al limite, mi sentivo così solo.. L’unica cosa bella era suonare dal vivo. Ogni volta che cantavo Careless Whisper, l’ultimo pezzo in scaletta, mi veniva da piangere perché non sapevo se sarei riuscito a farlo un’altra volta».

Listen Without Prejudice Vol.1 era una risposta ai critici e un omaggio ai Beatles

Il titolo del seguito di Faith era una risposta alle accuse di appropriazione culturale. «Non riuscivo più ad avvicinarmi alle radio afroamericane, ed è per questo che ho scelto il titolo Listen Without Prejudice», dice Michael. «Volevo fare un album con un po’ di gospel, un po’ di R&B e anche un po’ di roba da bianchi. Era il momento di dimostrare che potevo essere tutte queste cose insieme, senza scegliere».

Il disco è anche il risultato di un periodo di infatuazione per la musica dei Beatles. «Ero fissato con Abbey Road e Revolver», racconta. «Ho fatto quel disco come un atto d’amore verso John Lennon e Paul McCartney. Non pensavo che Paul avrebbe mai cantato Heal the Pain, e quando l’ha fatto mi sembrava un pezzo scritto da lui!».

Le critiche di Frank Sinatra lo hanno ferito

Con il passare del tempo le dichiarazioni di Michael sui pericoli del successo si sono fatte sempre più frequenti. La sua etichetta non era contenta, e nemmeno Frank Sinatra, che ha deciso di scrivergli una lettera aperta. “Dai, George”, ha scritto. “Rilassati, basta parlare della tragedia del successo. È una tragedia quando la gente smette di venire ai tuoi concerti, quando canti per la signora delle pulizie in un locale squallido, posti che non vedono pubblico pagante da secoli”.

Michael risponde nel documentario: «Non credo che la lettera sia stata scritta davvero da Sinatra», dice. «Anzi, sono tutt’ora convinto che fosse opera di un giornalista, non di un genio».

Il video di Freedom 90 ha cambiato tutto

George Michael ha smesso di fare attività promozionale per proteggere la sua vita privata, ed è per questo che ha deciso di non apparire nel video di Freedom ’90, lasciando il centro della scena a cinque modelle – Naomi Campbell, Linda Evangelista, Tatjana Patitz, Christy Turlington e Cindy Crawford.

«Ha cambiato il modo di fare i videoclip», dice Elton John. «Era geniale, qualcosa di rivoluzionario». Andy Stephens, che all’epoca lavorava nell’etichetta di Michael, ha un ricordo un po’ diverso: «Io del video mi ricordo solo la lista spese delle modelle. Quella si che era rivoluzionaria!».

I suoi problemi con la popolarità hanno creato un caso con Sony

«Registrare un disco e rifiutarsi di fare la promozione è un problema molto serio, deprime tutto il lavoro di produzione», spiega il leggendario executive di Sony Clive Davis. George Michael non aveva intenzione di cedere, e pensava che Sony non avesse pubblicizzato il suo album di proposito. La sua relazione con l’etichetta è ulteriormente peggiorata dopo la morte del suo amante Anselmo Feleppa, purtroppo malato di AIDS. Michael era straziato dal lutto e non riusciva più a scrivere. «Anselmo mi ha dato la forza di combattere contro Sony», spiega, «non potevo fare niente di musicale, ero bloccato, ma sentivo che potevo cambiare lo stato dei contratti discografici».

Ha portato l’etichetta in tribunale, l’ha accusata di «condannarlo alla schiavitù professionale. La causa contro Sony è stato un ottimo modo per liberarmi di tutta la rabbia che sentivo in corpo». Michael ha perso la causa, e in Freedom la ricorda come «un’incredibile perdita di tempo».

Il suo album preferito è Older

Per alcuni artisti scegliere l’album migliore della propria discografia è come scegliere il figlio preferito. George Michael non ha mai avuto questo problema: «Older è il mio lavoro migliore», dice, spiegando che con quell’album ha fatto definitivamente i conti con la morte di Feleppa. «Lui era il mio salvatore, è ancora difficile spiegare quanto mi abbia cambiato stare con lui». Il singolo Jesus to a Child è un omaggio diretto al suo amante, e per Michael è «il mio miglior pezzo, una cura».

«Per tutti i fissati con la simbologia e con le metafore: quello è il mio coming out album. Non c’è un pezzo che non sia dedicato ad Anselmo e ai pericoli dell’AIDS. Quel dolore era nel mio destino, con quel dolore ho scritto la musica perfetta per liberarmi delle mie sofferenze».

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