È morto Joe Ely. Era affetto da demenza con corpi di Lewy, aveva il morbo di Parkinson e una polmonite. Aveva 78 anni e per molti versi incarnava la figura del rocker di culto anche in Italia dove ha avuto un seguito appassionato e fedele.
Texano, protagonista della stagione del cosiddetto progressive country, ha cominciato a far musica negli anni ’70 coi Flatlanders, piccolo gruppo (una volta l’ha definita «una kitchen band») autore di un album nel 1973 e rivalutato in seguito visto che ci suonava con altri musicisti di culto come Jimmie Dale Gilmore e Butch Hancock. Nato ad Amarillo, cresciuto a Lubbock, in seguito associato alla scena di Austin, non ha mai abbandonato quelle terre che sono state fonte di ispirazione.
«Alle superiori» diceva al Lone Star Music Magazine nel 2011 esprimendo lo spirito del suo fare musica «c’erano insegnanti che mi dicevano che non sarei arrivato ai 21 anni, quindi sono qui contro ogni probabilità. Mi sono fatto milioni di chilometri, zigzagando su ogni mezzo di trasporto conosciuto dall’uomo, ho cercato di spostarmi da un luogo all’altro per creare un altro po’ di musica».
Dopo un periodo in cui è stato lontano dalla musica e ha lavorato in un circo, ha pubblicato il suo primo disco solista nel 1977 seguito da Honky Tonk Masquerade. Notato da Joe Strummer con cui ha stretto amicizia, ha aperto alcuni concerti del tour di London Calling dei Clash. E proprio i Clash lo hanno citato in If Music Could Talk: “Non c’è combinazione migliore di Joe Ely e dei suoi Texas Men”. Ha anche fatto i cori nella hit del gruppo Should I Stay or Should I Go. Tra i suoi dischi più amati c’è Love and Danger del 1992, che contiene la sua cover di The Road Goes on Forever di Robert Earl Keen.
Non è mai stato mainstream, ma era amato da un pubblico che lo seguiva con affetto. Anche in Italia, grazie al lavoro negli anni ’80 e ’90 di testate specializzate come Buscadero e Mucchio Selvaggio. «Sono stato solo fortunato, a quanto pare i dischi trovano da soli un loro pubblico», diceva con una certa modestia nel 2011. «In un certo senso fanno un percorso tortuoso, magari devono passare per qualche svolta e qualche deviazione, infilarsi in vicoli e girare intorno ai bayou e cose del genere, ma alla fine trovano il loro pubblico».
Ha collaborato e aperto concerti per tantissimi musicisti. Era quello che si definisce un musician’s musician. «Ha un leggero accento country del sud, un tocco di rockabilly», ha detto Bruce Springsteen nel 2016, nel discorso di introduzione alla Austin City Limits Hall of Fame. «Ha la profondità e l’emozione di Johnny Cash ed è autentico come le sue radici texane».











