Dal 1° gennaio 2026 Daniel Ek non sarà più il CEO di Spotify. Il fondatore della piattaforma svedese che in molti Paesi nel mondo, Italia compresa, è sinonimo di streaming lascerà il ruolo di amministratore delegato e diventerà presidente esecutivo, occupandosi della gestione a lungo temine. Il ruolo di CEO sarà condiviso dai due vicepresidenti Alex Norström e Gustav Söderström.
Ek ha spiegato che la decisione è l’evoluzione naturale e la formalizzazione di come viene gestita la leadership nell’azienda da anni ormai. Il fondatore continuerà comunque ad avere un ruolo attivo, in linea con la concezione di Executive Chairman europea e non americana. La decisione non è quindi collegata alle polemiche per gli investimenti fatti da Ek, tramite il suo fondo Prima Materia, i droni e tecnologia bellica che hanno suscitato alcune proteste che però non hanno avuto l’eco sperato. Artisti per lo più non mainstream come King Gizzard and the Wizard Lizard, Deerhoof e Xiu Xiu hanno deciso di togliere la loro musica da Spotify o di chiedere di farlo alle etichette discografiche, che ne detengono i diritti. I più famosi sono i Massive Attack. «Il peso economico che da tempo grava sulle spalle degli artisti» hanno scritto i Massive a proposito di Spotify «è ora aggravato da un peso morale ed etico giacché i soldi dei fan e degli sforzi creativi dei musicisti finiscono per finanziare tecnologie letali e dispotiche. Ora basta, più che basta. Un altro modo è possibile».
Il post dei Massive Attack è del 18 settembre. Al momento la loro musica è ancora presente sulla piattaforma ed è difficile che questa forma di protesta attecchisca, un po’ perché molti artisti dipendono dagli introiti di Spotify, e uscire dalla piattaforma significa uscire dal mercato musicale o quasi in assenza di un mercato fisico forte e dato il peso della piattaforma svedese nel mercato, e un po’ perché non hanno il diritto di farlo. In Italia Piero Pelù ha scritto che «purtroppo i master di tutti i miei dischi non mi appartengono più, altrimenti li avrei ritirati immediatamente dalla fottuta piattaforma di questo schifo di individuo».
In passato artisti popolari come Neil Young e Joni Mitchell, i cui introiti non dipendono certo dalla piattaforma, hanno ritirato la loro musica da Spotify per motivi politici, dopo l’accordo milionario di Spotify col podcaster di destra Joe Rogan. Ci sono poi tornati. Celebre è la presa di posizione di Taylor Swift, ma erano altri tempi, il 2014: «Non sono disposta a sacrificare il lavoro di una vita a un esperimento che non ritengo compensi in modo equo autori, produttori, artisti e creatori di questa musica». Oggi Swift è una delle artiste di maggior successo su Spotify.
Sembra avere maggiore risonanza la decisione condivisa da oltre 400 artisti, una delle ultime in ordine di tempo è Björk, di eliminare la propria musica dalle piattaforme di streaming (non solo Spotify quindi) nel solo territorio di Israele, una iniziativa chiamata No Music for Genocide. Per chi sostiene il blocco geolocalizzato, questo tipo di boicottaggio culturale vuole replicare quanto fatto contro l’apartheid in Sud Africa ed è un «atto concreto, una prima risposta alle richieste palestinesi di isolare e delegittimare Israele, che uccide senza subire alcuna conseguenza».
Spotify è entrata nelle cronache di recente anche per avere eliminato dalla piattaforma 75 milioni di canzoni create con l’intelligenza artificiale, una decisione presa dopo le accuse di inazione verso la musica fatta con l’AI. In passato Spotify è stata anzi accusata di aver creato artisti fake per accentrare i guadagni, come scrive Liz Pelly in Mood Machine: The Rise of Spotify and the Costs of the Perfect Playlist.
In un comunicato stampa Spotify spiega che proteggersi in modo deciso «contro gli aspetti peggiori dell’IA è essenziale per consentirne di sfruttarne il potenziale ad artisti e produttori che desiderano farlo» e che verrà indicato chiaramente dove e come l’intelligenza artificiale è stata usata nella musica.
