“Creuza de Mao”, De André spiegato ai cinesi | Rolling Stone Italia
News Musica

“Creuza de Mao”, De André spiegato ai cinesi

Per scrivere il primo libro in ideogrammi dedicato ai cantautori italiani, Sean White ha lasciato gli studi e speso tutti i suoi soldi. Poi la sua vita è cambiata.

“Creuza de Mao”, De André spiegato ai cinesi

Diciamoci la verità, è impossibile non notare un libro intitolato Creuza de Mao. Figuriamoci se si tratta di un volume in cinese dedicato ai cantautori italiani. Il suo autore è il giovane Zhang Changxiao (ma si fa chiamare Sean White), un ex-studente di ingegneria che ora organizza tournée, fa conoscere la nostra musica in Cina e la musica cinese in Italia (il Festival Mandorle), e che presto pubblicherà la versione italiana del libro che gli ha cambiato la vita.

“Creuza De Mao”

Quando sei arrivato in Italia?
Sono arrivato sei anni fa, per un master in ingegneria meccanica al Politecnico di Milano. All’inizio pensavo di aver sbagliato tutto: l’università italiana è molto difficile, e non riuscivo a studiare. Il libro, invece, è arrivato un po’ dopo.

Come è successo? L’ingegneria meccanica e il cantautorato non sono molto vicini
All’epoca abitavo nel campus universitario di Lecco, non studiavo molto e facevo lunghe passeggiate. A un certo punto ho sentito una voce arrivare da un negozio, mi ricordava Leonard Cohen, ma non era in inglese. Mi sono avvicinato al commesso e ho chiesto di chi fosse quella canzone. Era Fabrizio De André.

Che canzone?
Nella mia ora di libertà. All’inizio non capivo niente del testo, il mio italiano non era buono, ma ho capito subito che stava succedendo qualcosa di importante. Sono andato a casa e ho chiesto ad alcuni amici che parlano sia il cinese che l’italiano di spiegarmi le parole. Alla fine ho passato tutta la notte ad ascoltare le sue canzoni. Il testamento di Tito mi sembrò incredibile.

In Cina non avevi mai sentito nulla del genere?
No, in Cina conosciamo Pavarotti e Andrea Bocelli. Dopo quella sera ho cercato informazioni su De André, ma non c’era nulla in cinese. Zero. Neanche Wikipedia. Quindi ho deciso di provare a farlo io, sono andato in una libreria e ho cercato una biografia di De André. Mi sono appuntato la mail dell’autore e gli ho scritto una mail. Mi ha risposto dopo qualche ora, e ho scoperto che anche lui abitava a Lecco.

Così, al primo colpo
Sì, è molto strano! Ci siamo incontrati, e mi ha raccontato la storia di De André. Poi mi ha fatto una lista: De Gregori, Guccini, Giorgio Gaber, moltissimi cantautori. Ho capito che c’era tutto un mondo da scoprire, e che volevo portarlo in Cina. Così ho cominciato a fare delle interviste, e a scrivere il libro.

E l’ingegneria meccanica che fine ha fatto?
Eh (ride). Non mi interessava più, ero sempre lontano dall’università per la musica. E mi sentivo in colpa! Mio padre pensava fossi diventato matto. In Cina avere a che fare con la musica non è considerato un bel lavoro, non si guadagna. È una cosa da playboy.

Ma tu l’hai fatto lo stesso

Sì, e sono rimasto senza soldi. Ho speso tutto per viaggiare e fare le mie interviste: Bologna, Modena, Salerno, Bari… Dopo qualche mese ho pensato: “Quando ho conosciuto Fabrizio De André io sono morto”. È stato difficile, ma ho deciso di giocarmi le mie carte. A Torino.

Torino? Che c’entra adesso Torino?

Stefania Stafutti (Direttrice dell’Istituto Italiano di Cultura di Pechino, ndr) era tornata in città dalla Cina, e ho chiesto di incontrarla per raccontarle il mio progetto. Era molto sorpresa, nessuno le aveva mai proposto una cosa del genere e mi ha aiutato. Sono andato avanti e ho finito il libro.

Che adesso ha venduto più di 100mila copie…
Sì, ma non è un successo così grande, in Cina dovrei venderne almeno un milione. La rete che ho organizzato sui social, invece, è andata benissimo. Ora ci sono più di 3 milioni di cinesi interessati ai cantautori italiani. Mi scrive gente di tutti i tipi, anche anziani. Mi chiamano maestro (ride).

Sean White e Roberto Vecchioni

Ora organizzi concerti di artisti italiani in Cina. Che cosa colpisce di più il pubblico di quelle parti?

All’inizio sono sorpresi: i cinesi pensano che l’Italia sia solo lirica. Poi ascoltano Eugenio Finardi, e pensano che sia qualcosa di nuovo, un po’ come la poesia.

Qual è il testo che ha avuto più impatto sui tuoi lettori?
Il testamento di Tito. De André scriveva sempre da un punto di vista diverso. Noi prendiamo le nostre informazioni dalla tv, dai giornali, mai dai poveri, come faceva De André. Lui pensava alle persone più vulnerabili, gli ubriachi, i perdenti… secondo me è questo che colpisce i cinesi.

Ti piacciono solo i cantautori del passato?
No, scriverò un altro libro con altra musica. Mi piacciono i Baustelle, Mannarino, i Cani e i Verdena.

Ultima domanda: come ti è venuto in mente il titolo Creuza De Mao?
Il mio album preferito di De André è Creuza de mä, mi piace l’immagine di una striscia di terra che collega il mare alle montagne. Mentre scrivevo il libro mi sentivo così, come un collegamento tra Italia e Cina. E tutti conoscono Mao, mi sembrava perfetto per rappresentare la cultura cinese. E poi Creuza significa strada, e io mi sento un po’ come un esploratore. Infatti mi chiamano “il Marco Polo cinese”.

Altre notizie su:  Fabrizio De André Sean White