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Class action contro Spotify: venderebbe visibilità ingannando gli utenti

Al centro dell’azione legale lo strumento Discovery Mode. Per i querelanti sarebbe una «forma moderna di payola». La risposta della piattaforma: «Non si acquistano stream, non influisce sulle playlist editoriali»

Class action contro Spotify: venderebbe visibilità ingannando gli utenti

Foto: @felirbe/Unsplash

«Con Discovery Mode, gli artisti e le etichette identificano i brani prioritari e il nostro sistema aggiunge questa indicazione agli algoritmi che alimentano le playlist personalizzate. Questa indicazione aumenta la probabilità che i brani selezionati vengano consigliati, ma non rappresenta una garanzia. Questo metodo funziona soltanto se anche i fan amano la musica. Se gli ascoltatori non interagiscono con un brano, compresi quelli in Discovery Mode, ne teniamo conto quando prepariamo i consigli futuri. È tutta una questione di armonia».

Così Spotify presenta sul suo sito Discovery Mode, lo strumento pensato per aiutare «artisti e marketer musicali» ad allargare il proprio pubblico. Per i promotori di una class action che è stata depositata l’altro ieri a Manhattan si tratta di una «forma moderna di payola», il nome col quale gli angloamericani indicano le bustarelle date alle stazioni radio affinché inseriscano certi dischi nella loro programmazione.

Secondo i querelanti, è quel che farebbe Spotify con lo strumento: al posto di fornire agli utenti playlist personalizzate in base ai loro effettivi interessi, venderebbe visibilità tramite accordi economici riservati, una forma di inganno nei confronti degli ascoltatori che hanno la «falsa impressione di trovarsi di fronte a consigli neutrali e personalizzati, quando in realtà l’algoritmo è guidato sotto sotto da incentivi finanziari».

«Spotify» si legge nella denuncia ottenuta dal sito All Hip Hop, fa leva sulla fiducia degli utenti «promuovendosi come una piattaforma che offre consigli musicali organici, per poi vendere sotto banco tali consigli al miglior offerente». Pur sapendo che i consigli personalizzati sono falsati da accordi economici, l’ascoltatore non riesce a «distinguere quali brani sono consigliati per motivi editoriali o di personalizzazione legittimi e quali invece sono promossi per via di accordi commerciali che non vengono divulgati». Secondo i documenti relativi all’azione legale depositati da un’utente di nome Genevieve Capolongo, l’inserimento in una playlist con un seguito modesto costerebbe 2000 dollari, che salirebbero a 10 mila per le playlist con più follower.

Spotify ha replicato chiamando «una sciocchezza» la class action. «Discovery Mode» ha detto un rappresentante della piattaforma a Hollywood Reporter «è una funzione che gli artisti possono utilizzare per segnalare brani prioritari affinché vengano presi in considerazione dall’algoritmo in contesti limitati: Radio, Autoplay e determinati Mix. Non si acquistano stream, non influisce sulle playlist editoriali e il funzionamento è chiaramente indicato nell’app e sul nostro sito».

L’azione arriva pochi giorni dopo un’altra class action promossa dal rapper RBX, cugino di Snoop Dogg secondo cui Spotify «chiuderebbe un occhio» sulla pratica degli «stream fraudolenti su larga scala». A beneficiarne sarebbe stato tra gli altri Drake, che avrebbe ricevuto «miliardi» di stream fake.

«Questa accusa è infondata», replica la piattaforma. «Spotify non trae alcun beneficio dallo streaming artificiale, un problema che affligge l’intero settore e che combattiamo attivamente con i nostri sistemi di rilevamento all’avanguardia. Una volta rilevati, non paghiamo né contiamo gli stream manipolati. I nostri sistemi sono efficaci: in una vicenda risalente allo scorso anno, un truffatore è stato incriminato per aver sottratto 10 milioni di dollari ai servizi di streaming, di cui solo 60 mila dollari provenivano da Spotify».