Carmen Consoli si racconta: «Me ne fotto del mercato» | Rolling Stone Italia
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Carmen Consoli si racconta: «Me ne fotto del mercato»

Abbiamo incontrato la Cantantessa in occasione del suo concerto romano e con noi ha parlato del nuovo album, dell'epoca d'oro della musica italiana fino alla sua passione per gli Smiths

Carmen Consoli si racconta: «Me ne fotto del mercato»

Carmen Consoli durante il live all'Auditorium Parco della Musica. Foto di Francesco Fornaciari

Carmen Consoli si svela oltre una nuvola di fumo che soffia dalla gola del palco attraverso la scenografia a conchiglia, mentre l’orchestra copre il silenzio d’attesa del pubblico romano del LuglioSuonaBene con gli strumenti più antichi che ha: un flauto siciliano, un buzuki (una specie di mandolino più grande e proveniente dall’antica Grecia), un set di percussioni di tamburelli (e congas, rullanti, piatti e pad elettronici), e i tre archi, violino, viola e violoncello, ormai prerogativa irrinunciabile per la Cantantessa. Da inizio anno è in tour con Eco di Sirene, il trio di soli strumenti a corda (viola e violoncello) che accompagnano la chitarra dell’artista catanese. Saliranno poi sul palco un trombettista e una pianista, mentre Carmen poggerà le sue vertiginose zeppe dorate sulla pedaliera, retaggio delle sue origini rock.

Sotto un timido spicchio di luna, nella cavea dell’Auditorium Parco della Musica gremita di persone grandi e piccine, gay e etero, tutte ipnotizzate dalla performance, la conchiglia di luci e strisce di tessuto sembrava fondersi con la platea, come se il pubblico fosse un’estensione dell’urlo della sirena catanese arrivata ieri a risvegliarci dal coma del caldo estivo con le sue liriche contro la discriminazione sessuale, la guerra e la mafia.
La sua chitarra ha attaccato su “Sugnu sempri alla finestra e viru genti ca furria pà strada”, il pezzo del disco Elettra del 2009, A Finestra, dedicato a Falcone e Borsellino lo scorso maggio.

Foto di Francesco Fornaciari

Il concerto, di quasi due ore, attraversa gli oltre venti anni di carriera di Carmen raccontati dalla poetica di 22 pezzi (qui in dettaglio per i fanatici: A’ Finestra, Pendio dell’Abbandono, Mio Zio, Mandaci una Cartolina, Ultimo Bacio, Little Green di Joni Mitchell, Fiori d’Arancio, Geisha, L’eccezione, Maria Catena, L’Abitudine di Tornare, AAA Cercasi, Guarda l’Alba, Parole di Burro, Bonsai, Venere, Fino all’Ultimo, Contessa Miseria, Confusa e Felice, Amore di Plastica, Blunotte, In Bianco e Nero), e si è concluso con la standing ovation del pubblico e i ringraziamenti dettagliatissimi della Cantantessa rivolti a tutti gli addetti ai lavori del concerto.

La tendenza alla sovversione dei canoni e del prestabilito, al rischio della scommessa sull’inusuale, come la rielaborazione della tradizione musicale italiana, sono i principi su cui si basa questo live estivo che porta sui palchi un repertorio arrangiato per il nuovo organico senza basso e batteria, che sperimenta, sulla base della formazione da camera del tour in trio, un equilibrio particolare che lascia presumere che il disco nuovo, di cui si è già vociferato, sarà avvolto dal folklore della tradizione musicale siciliana e italiana.

Foto di Francesco Fornaciari

«In questo periodo sono nate tante canzoni – ha rivelato – ma sarà utile capire se, come e quando farle uscire, senza dover necessariamente subire le leggi e i tempi del marketing. C’è qualche genio della discografia che un giorno mi disse – e qui Carmen parla come il Dogui – “non è bello ciò che è bello, è bello ciò che vende”. Lì per lì ho avuto un attimo di riflessione, mi sono interrogata sull’entità di questa affermazione, ma poi ho pensato: “me ne fotto”. Vivo per essere felice, se posso continuo con quello che mi piace, altrimenti faccio un altro lavoro. Se dovessi cambiare le mie cose per compiacere gli altri o per non deludere le aspettative che creano su di me smetterei di rispettare la mia vita».

«Sono stata lontana dalle scene cinque anni prima di pubblicare L’Abitudine di Tornare nel 2015, e in quei cinque anni ho fatto l’imprenditore agricolo coltivando ciliegie e producendo olio», continua la Cantantessa. «Mio padre era agronomo, questo era il suo sogno, poi purtroppo è scomparso e ha lasciato a me e mia madre le redini di questa attività e delle case vacanze che gestiva. Non abbiamo altri parenti, siamo due fimmine sule con in mano anche un’etichetta indipendente che si chiama Narciso Record e produce musica tradizionale siciliana. Queste erano tutte le passioni di mio padre, ottimo chitarrista tra l’altro. Ringrazio il Padreterno per chi ci crede, o la mia vita (io non credo al Padreterno) che la musica sia diventata anche un lavoro per me. Dico solo, citando Battiato, che “poi alla fine se uno davvero crede in quello che fa, può ascoltare il proprio cuore e farsi seguire”. Lui ha dimostrato questo nella sua esperienza, facendo anche delle canzoni ostiche, si è preso i suoi rischi e ha costruito a poco a poco la sua carriera, infischiandosene di certe logiche del periodo, e trascinando il suo pubblico nella sua storia, creando un dialogo».

Foto di Francesco Fornaciari

«Sono stata molto fortunata perché, quando ho iniziato la mia carriera, l’Italia stava attraversando un momento di rivoluzione – ha proseguito – In quel periodo l’industria discografica rischiava, era un vessillo in tutta l’Europa, la Francia la imitava. Mi ricordo che in classifica avevamo La Cura di Battiato, i CSI con Forma e Sostanza, Max Gazzè, i Subsonica, gli Afterhours, Cristina Donà. C’era tutto un mondo intorno al cosiddetto underground che stava diventando la musica pop italiana e che andava in radio, dominava le classifiche. C’è tanta bella musica che viene fuori anche oggi, ma molta viene ignorata o dimenticata perché viviamo nella società dell’usa e getta. Il discorso del tempo è diventato fondamentale: tutto deve essere immediato, la canzone deve essere facile, hanno pure accorciato la durata dei singoli che ai miei tempi era di quattro minuti mentre oggi è di tre. Penso che anche nel cinema sia così: non so se oggi Fellini avrebbe potuto scrivere Amarcord o i capolavori che ha fatto. Buñuel l’avrebbero buttato dalla finestra. L’angelo sterminatore è il film della mia vita perché continuo a vederlo e a emozionarmi profondamente, scrivo le mie canzoni guardandolo. E mi rendo conto che oggi non so quale pubblico, quale utenza potrebbe avere Buñuel, forse ne avrebbe una ma non credo che qualcuno sarebbe disposto a diffonderlo».

Foto di Francesco Fornaciari

«L’arte ha un potere straordinario. La musica ti fa cambiare idea, riesce a influenzare gli animi e ha un ruolo fondamentale nella società – ha concluso – Quando ero piccola compravo dischi e sognavo nella mia stanza; in tutta la lentezza e l’immobilità, la mia mente faceva dei voli pindarici: quello che ho costruito nella mia testa è stato una prova teorica di tutto quello che ho compiuto poi fisicamente nella pratica, e devo farne ancora tante delle cose che avevo sognato a 13 anni ascoltando i Jefferson Airplane, Janis Joplin, il buon Bruno Martino e il poeta che non si vergognava di soffrire per amore, Luigi Tenco. C’è un pezzo di una band che amo da morire, gli Smiths, che si chiama Panic e fa: “Panic in the streets of London/ Panic in the streets of Birmingham/ I wonder to myself“. Morrissey attribuisce alla musica un ruolo importantissimo che è quello di diffondere i valori.

La musica crea speranza, interpreta le circostanze, la vita, fa sì che l’ascoltatore elabori le sue prospettive future con più facilità. Erano gli anni 80 e Morrissey denunciava un vuoto di senso della sua generazione di allora, accusando i dj cantando “hang the dj”, cioè, impiccate ‘sti dj, ‘ste discoteche, perché diceva che avevano tolto senso alla musica. Non è tangibile la musica, non produce – sempre con l’intonazione alla Dongui – non dà un reddito immediato, cioè non è che tu fai musica, la tocchi e la mangi. Ma produce degli effetti tangibili come la pelle d’oca, dei cambiamenti. Anni fa lessi un libro sulla memoria dell’acqua e su come reagisce ai suoni e alle frequenze.

«Qualcuno aveva dimostrato che i suoni creano dei cristalli nell’acqua e che la musica, quando è bella, ne crea dei meravigliosi. Essendo noi fatti del 70% circa d’acqua, consigliava questa musicoterapia. A conferma di questa tesi era arrivata la mia signora delle pulizie filippina che mi aveva confessato che si era curata un male brutto con gli ultrasuoni. Quindi, questi hertz, queste frequenze che si muovono lungo quest’onda sinusoidale probabilmente qualcosina la fanno. La musica e l’arte in genere sono delle frequenze che non vanno sottovalutate».

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